TENNIS – Nonostante gli inglesi ospitino il torneo di tennis più famoso del mondo, dal 1936 in poi non avevano mai trovato uno nato da quella parte della Manica in grado di vincere il trofeo. Storia di tentativi un po’ romantici e un po’ patetici di vincere il trofeo di casa. Prima che arrivasse Andy Murray, Wimbledon è stata terra di dominio straniero. Lasciando da parte i gloriosi anni in cui preti e assassini si sfidavano in tenuta bianca e con accento cockney, anche se eravamo in campagna, un suddito della graziosa maestà non era mai più riuscito ad alzare la (diciamolo: orribile) coppa alta 45 cm che viene consegnata al vincitore del torneo maschile dal 1936, l’anno dell’ultimo successo di Fred Perry, già campione del mondo di ping pong (suvvia…) e futuro concorrente di magliari più o meno eleganti. Per gli inglesi è stata a lungo una vera e propria maledizione che li ha condotti per molti anni ad affidare le proprie speranze di successo a tennisti dal talento quanto meno incerto. Bastava superassero un paio di turni e i tabloid – ma anche la stampa seria – strillava a tutta pagina della grande speranza inglese dell’anno.
Cosa dire ad esempio di Jeremy Bates, un onesto mestierante che nel 1992 si trovò a rivestire i panni dell’eroe nazionale? Il tennista delle Midlands superò tre turni ma subito dopo aver battuto Michelino Chang al primo era già scoppiata la “Bates mania”. Il buon Jeremy fu capace di mettere molta paura anche a Guy Forget che si trovò sotto per set ad uno e al tiebreak del quarto. Bates ripetè l’impresa nel 1994 e di nuovo Forget, stavolta senza gli stessi problemi, si prese l’incarico di fermarne la corsa.
Prima di lui era stato Buster Mottram – che gli italiani ricordano bene… – ad essere approdato fino agli ottavi. Fu nel 1982, Mottram era addirittura testa di serie (la 15) ma incappò in Tim Mayotte, giusto l’anno in cui “Gentleman Tim”, arrivò fino alla semifinale, che lo liquidò abbastanza seccamente. Ed è forse il caso di stendere un velo pietoso sull’entusiasmo che trascinò Greg Rusdesky, canadese fino a due anni prima e del tutto ignorato, improvvisamente diventato l’idolo del centre court, quando nel 1997 a furia di terribili servizi mancini – che lo condurranno in finale allo US Open un paio di mesi dopo – arrivò fino ai quarti contro Cedric Pioline.
Ma quell’anno, insieme a Greg Rusdesky, un altro britannico – e stavolta che più britannico non si può, direttamente e nientemeno da Oxfors – raggiungeva per la seconda volta di fila i quarti di finale a Church Road. La storia di Tim “Timbledon” Henman (ah questo humor inglese), è esemplare di come potesse essere un’ossessione il torneo di Wimbledon. In buona sostanza il buon Tim ha trascorso i primi dieci anni della sua carriera semplicemente preparandosi per Wimbledon. Usava gli altri tornei dello slam praticamente come tappe della sua preparazione per l’ultima settimana di giugno. Fino al 2000 una sola volta era arrivato agli ottavi a New York, e fatto salvo il 2004, vero e proprio anno di grazie per l’oxfordiano, capace di arrivare in semifinale addirittura a Parigi, oltre che a New York, mai riuscì a superare gli ottavi. Ma appena si aprivano le Doerthy Gates, il nostro Tim si trasformava. Dal 1996 al 2004 una sola volta mancò i quarti di finale, issandosi per quattro volte fino alla semi. Le prime due, poveraccio, pescò il Sampras versione “Pistol” che gli faceva vincere un set per poi travolgero di ace e servizi vincenti, con tanti saluti all’elegante ma leggerino S&V. Delle altre due, neanche battere Federer gli bastò, perché incappò nella pioggia e nella favola di Ivanisevic; e infine bastò il miglior Hewitt di sempre a travolgerlo. Chissà se è una consolazione per lui, sapere di aver perso solo con chi alla fine vincerà il torneo.
Con ammirevole caparbietà Henman si allenò persino di più, sembrava sempre sul punto di fare meglio dell’anno prima ma poi si inceppava sempre qualcosa. Quando nel 2004 perse contro Grosjean si capì che gli inglesi avrebbero dovuto attendere ancora un po’. E provare magari con uno scozzese…