Non sono molti i tennisti che hanno vinto due prove del Grande Slam e cinque Master 1000 di cui si possa dire: “Peccato che non abbia saputo mettere a frutto tutto il suo talento”. Eppure, nel caso del moscovita Marat Safin, che compie oggi 41 anni, è proprio così: lo scrittore John Jeremiah Sullivan, che lo definisce “fisicamente, il talento più puro nella storia del gioco“, ha scritto di essere arrivato vicino all’odiarlo per la sua incapacità di mettere a frutto il suo potenziale. Perché allora la sua figura continua ad esercitare un fascino irresistibile sugli appassionati, anche a 12 anni dal ritiro? Abbiamo scelto tre partite per cercare di spiegarlo.
Atto I: Safin – Sampras = 6-4 6-3 6-3 (US Open 2000, finale)
Safin si rivela al mondo il 10 settembre del 2000. È il giorno della finalissima dello US Open, raggiunta dal russo battendo Guardiola, Pozzi, Grosjean, Ferrero (cui ha lasciato soltanto cinque game), Kiefer e Todd Martin. Niente male davvero per un ventenne, ma in finale, dall’altra parte della rete, c’è Pete Sampras, che ha già saputo aggiudicarsi, in carriera, 13 prove del Grande Slam (7 titoli a Wimbledon, 4 US Open, 2 Australian Open). Il pronostico sembra scontato, anche se sono in molti a immaginare che Safin saprà dare del filo da torcere a Sampras.
Ciò che colpisce, oltre alla potenza del servizio, è la capacità del giovane russo di colpire con la stessa naturalezza e con un movimento molto simile tanto in diagonale quanto in lungolinea, specie di rovescio. A questo si aggiungono un sorprendente tocco e una buona volée. Se consideriamo anche l’efficacia col dritto, sembra quindi che Safin non abbia punti deboli e, forse, tecnicamente parlando è proprio così.
Sampras però si è dimostrato capace di dominare il circuito per molti anni. In semifinale ha sconfitto Agassi, il rivale di sempre, e si presenta in campo col piglio sicuro di chi vuol arrotondare ulteriormente il proprio già invidiabile bottino.
Il fatto è che, parafrasando Brera e la sua descrizione della marcatura di Gentile su Maradona al Mundial ’82, “puoi anche essere l’Iddio della pelota in Terra, ma se un brocco non te la fa toccare, sei un Iddio della pelota che lascia la palla ai brocchi”.
Ecco, diciamo che Sampras nel 2000 potrà anche essere l’Iddio della pallina in Terra, ma se Safin (tutt’altro che un brocco) non gliela fa toccare, è un Iddio della pallina che lascia un punto dopo l’altro, un game dopo l’altro, all’avversario.
Non soltanto infatti il russo è sostanzialmente ingiocabile al servizio, ma scaglia vincenti praticamente da ogni angolo del campo. A fine match, totalizzerà 37 vincenti e soltanto 11 errori non forzati: statistiche veramente impressionanti, in particolare per un ventenne alla sua prima finale Slam.
Il colpo decisivo della finale è però probabilmente la risposta. Nonostante la consueta ottima prestazione di Sampras al servizio, infatti, Marat risponde con continuità, e con aggressività. Non si limita a far partire lo scambio, ma cerca di prendere l’iniziativa, anche contro la prima dell’avversario. A fine match, gli chiedono come sia riuscito a essere così efficace. Risponde: “Pensate che ne abbia un’idea?” E così cominciamo a inquadrare ancor meglio il personaggio.
Tra l’incredulità del pubblico, la finale finisce in tre set: 6-4, 6-3, 6-3 per Safin. Ad ascoltare non soltanto il giudizio dei critici, ma anche le parole dello stesso Sampras, il mondo del tennis sembra aver trovato un nuovo re. Purtroppo, le promesse di quel brillante giorno di settembre saranno mantenute soltanto in parte.
Atto II: Safin-Mantilla = 6-4 2-6 6-2 6-7 11-9 (Roland Garros 2004, 2° Turno)
Sulle ali del successo allo US Open, tra la fine del 2000 e l’inizio del 2001, aggiudicandosi anche il torneo di San Pietroburgo e soprattutto il Master 1000 di Parigi-Bercy, Safin guadagna la prima posizione della classifica ATP, ma la mantiene soltanto per nove settimane; non solo, nel 2000 arriva a una vittoria dal numero uno di fine anno, ma perde la semifinale del Master di Lisbona contro Agassi e subisce il sorpasso all’ultima curva di Guga Kuerten.
Negli anni successivi, il russo mostra una certa discontinuità, fra infortuni, problemi di tenuta nervosa, e soprattutto una condotta non impeccabile fuori dal campo. Tra il 2001 e il 2004 si aggiudica “soltanto”, ancora una volta, il torneo di Parigi-Bercy nel 2002, anche se a dire il vero raggiunge altre due finali Slam, sempre in Australia, nel 2002 e nel 2004. Nel 2004 si inchina senza colpa a Sua Maestà Federer, ma la sconfitta del 2002 con Thomas Johansson, avversario decisamente alla sua portata, pesa sulla coscienza tennistica di Safin come un peccato capitale – molti attribuirono la sua prestazione sottotono alle “Safinette” (copyright Scriba Clerici), tre fanciulle presenti nel suo box e che probabilmente non aiutarono nella preparazione del match.
È con questo spirito che Marat affronta il Roland Garros del 2004, e quella terra battuta da sempre per lui avara di soddisfazioni, anche nei momenti migliori. E dopo aver sconfitto (per ritiro) l’argentino Augustin Calleri al primo turno, si trova di fronte lo spagnolo Felix Mantilla. Semifinalista nell’edizione 1998 del Roland Garros, Mantilla non ha più trovato, negli ultimi tempi, lo stesso smalto, e si trova, in quel momento, alla posizione 93 del ranking mondiale, pur rimanendo un cliente scomodo sulla terra. La giornata, anzi le giornate (il match si svilupperà su due giorni), non sono brillantissime per il russo, ma sufficienti a portarlo in vantaggio di due set a uno. Mantilla però si aggiudica il tie-break del quarto, e si va al set decisivo, al long set. Mantilla chiama il fisioterapista, ma sembra muoversi molto bene in campo. Safin, per usare un eufemismo, non ha l’aria di gradire molto.
Ed è sul 4-3 Safin, servizio Mantilla, 0-15, che si assiste a una scena davvero inusuale: a conclusione di uno scambio molto duro, lo spagnolo pensa di aver chiuso il punto con una volèe corta. Safin però, tignoso, arriva sulla palla e, con un tocco degno dei giorni migliori, si aggiudica lo scambio. Ci si aspetterebbe un urlo di gioia. Invece no. Serafico, Marat si cala i pantaloni. Secondo warning e penalty point. Quella partita Safin la vincerà, 11-9 al quinto. Forse, si pensa, non ha ancora la continuità necessaria per aggiudicarsi di nuovo uno Slam (impresa non semplice perché Federer in quel periodo sembra imbattibile, almeno sul veloce), ma almeno pare proprio che gli sia tornata la voglia di divertirsi e divertire. A modo suo, ça va sans dire.
Atto III: Safin-Federer = 5-7 6-4 5-7 7-6 9-7 (Australian Open 2005, semifinale)
Gennaio 2005, Melbourne, primo Slam della stagione. Safin è in semifinale: lo attende Roger Federer, numero uno al mondo e campione in carica. Come con Sampras nel 2000, il pronostico non lascia molte speranze al russo. Federer vince il primo e, dopo una gagliarda reazione che gli vale il secondo parziale, Safin deve cedere il terzo. Si trova quindi sotto due set a uno. Il quarto set finisce al tie break, e Federer ha match point sul proprio servizio, sembra proprio finita. La qualità della partita è stellare, e proprio la conclusione del quarto set ne rappresenta forse l’apogeo. Eccezionale infatti il modo in cui Safin annulla il match point, con un pallonetto su un’ottima volée corta di Federer. Poi si porta a set point, e lo trasforma. Il pubblico australiano è in delirio, tifavano tutti per il quinto, ovvero perché quella che già si candidava a essere la partita dell’anno potesse prolungarsi ancora.
L’incertezza maggiore per Safin, arrivati al quinto, riguarda la tenuta nervosa. Federer in quel periodo è un vero e proprio schiacciasassi (basti ricordare che nel 2004, 2006 e 2007 si aggiudica tre prove su quattro del Grande Slam, raggiungendo nel 2006 e nel 2007 anche la finale sulla terra di Parigi) e, arrivati al gran finale, sembra possa spuntarla. Ma Safin, quel giorno, è inossidabile. Serve per il match e subisce il break di Federer, ma non cede, non arretra. E infine, sull’8-7 al quinto, trova l’allungo decisivo. In finale troverà Hewitt, idolo di casa, e saprà superarlo per tre a uno dopo aver perso nuovamente il primo.
È il momento più luminoso della carriera di un campione discontinuo e sregolato, che ha detto di aver sfasciato 1055 racchette in carriera, una cifra fuori scala di per sé, ma che diventa parossistica quando si ricorda che Safin si è ritirato a soli 29 anni, nel 2009. E allora perché, tornando alla domanda iniziale, siamo ancora mortalmente attratti? Perché nelle giornate migliori non c’è stato nessuno capace di rendere il gioco dell’avversario “irrilevante” (come scrive ancora Sullivan) come faceva questo tartaro. E forse anche perché quando giocava non si andava à la carte, decideva lui, e per tanti appassionati un attimo di ispirazione e/o imprevedibilità (che si tratti di una stop volley o di uno strip durante il quinto set) è tuttora il motivo principale per amare il tennis nella sua componente più ludica. Buon compleanno, Marat!
Genovese, classe 1985, Damiano Verda è ingegnere informatico e data scientist ma anche appassionato di scrittura. “There’s four and twenty million doors on life’s endless corridor” (ci sono milioni di porte lungo l’infinito corridoio della vita), cantavano gli Oasis. Convinto che anche scrivere, divertendosi, possa essere un modo per cercare di socchiudere qualcuna di quelle porte, lungo quel corridoio senza fine. Per leggere i suoi articoli visitate www.damianoverda.it