Matteo Berrettini non ce l’ha fatta a vincere il suo primo Masters 1000, anche se si è avuto in più di un momento la sensazione che potesse farcela. L’ha avuto lui, quando dopo aver vinto il primo set in modo rocambolesco, ha tenuto i primi tre game di servizio a zero, 12 punti a zero. Lì è sembrato – a lui e a me – che anche Zverev potesse essere demolito com’era accaduto suo malgrado a Ruud.
A Matteo la sconfitta brucia ed è normale che sia così. Lui è deluso (“Ho vinto un set che pensavo di perdere, ho perso un set che pensavo di vincere” e alludeva al secondo, anche se io ricorderò fra poco la palla break del terzo) e io pure ovviamente, ma io lo sono sicuramente soltanto fino a un certo punto. Lui non so. Diciamo però che entrambi dovremmo guardare più in là, in prospettiva.
Nel terzo set, accennavo, Matteo ha avuto la palla break del 3-1 e questo già dice molto. L’importante – e in questo momento potrà apparire certamente come una magra consolazione – è avere constatato che fra lui e uno dei migliori sei tennisti del mondo, il tedesco Zverev che è un sicuro campione, un giocatore che, con i vari Nadal, Djokovic e Federer in campo, ha già vinto le ATP Finals e quattro Masters 1000, il primo dopo quello di Madrid 2018, non c’è poi grande differenza. La differenza si è vista soprattutto in termini di esperienza. In qualche schiaffo al volo mancato per lasciare rimbalzare la palla, in qualche rovescio slice troppo difensivo sulla diagonale dei rovesci più favorevole a Zverev, in qualche smorzata giocata con meno sagacia tattica di altre volte. Ed è stata decisiva.
Lo si è visto nelle fasi finali, quando Matteo non ha più espresso quel tennis ordinato e coerente del primo set in cui aveva accusato una sola pausa nel tie-break, quando avanti per 5 punti a 0 e tre mini-break, si era fatto raggiungere. Lui si è reso conto di non aver giocato il suo miglior match, anche se va dato atto a Zverev di aver giocato anche in difesa (recuperando palle quasi impossibile per un tipo alto 1 metro e 98) un grandissimo match da metà del secondo set in poi.
Però dopo questo torneo in Spagna voglio sperare che nessuno dubiti più delle qualità di Matteo e del suo pieno diritto ad essere considerato un legittimo top-10.
È da più un anno e mezzo, in pratica, che la maggior parte delle attenzioni degli appassionati italiani sembravano rivolte soltanto a Jannik Sinner. Matteo aveva sempre sopportato con pazienza ed umiltà il suo essere un po’ snobbato, per quanto lui fosse top 10 quando Jannik a fine 2019 aveva sì vinto le Next Gen Finals contro dei ragazzi appena un po’ meno giovani di lui, ma era pur sempre una settantina di posti in classifica più indietro rispetto al tennista romano.
Sia chiaro, è normale che ci si… innamori soprattutto dei tennisti giovani, anzi giovanissimi, perché sono soprattutto loro che ci fanno sognare in prospettiva. E certamente Sinner – oggi n.9 dietro a Matteo n.8 nella race – ha tali qualità, al di là di quella indubbia precocità che ha autorizzato confronti a distanza con i migliori tennisti delle ultime due decadi, Djokovic, Federer, Nadal, che – ribadisco – è normale che su lui si sia incentrato tanto interesse, degli appassionati e degli sponsor.
Molto più che su Berrettini, che ha il ‘torto’ di essere venuto alla ribalta dopo i 23 anni, senza una grande carriera da junior o da under 21. Di sponsor Sinner ne ha già nove, se non me ne sono perso qualcuno. Anche loro hanno contribuito – nel promuovere i loro brand – a conquistare tanto spazio extra per il loro ambassador.
Questo apporto degli sponsor non c’è stato assolutamente, quantomeno in misura lontanamente paragonabile per Matteo Berrettini. I suoi sponsor – oltre ad essere inferiori per numero (un terzo?) – si sono mossi talmente sottotraccia, che si è arrivati perfino a dubitare che i rapporti di qualcuna di quelle aziende con il tennista romano fossero ancora in essere. O lo fossero solo ancora per pochi mesi. Si poteva infatti dubitare che essi fossero forse ancora in piedi perché legati a contratti che per via del Covid e dei sei mesi di break non fossero stati completamente onorati. O non fossero suscettibili – è un’ipotesi – di azione legali collegate anche al cambio di management avvenuto per Matteo che dalle cure della Topseed di Corrado Tschabushnig era a fine anno scorso passato a quelle della società di Ivan Ljubicic, la LJ Sports Group.
Un passaggio particolarmente doloroso, anche affettivamente, per il vecchio manager che poteva dire di “aver tirato su Matteo” e tutto il suo clan, da Santopadre al mental coach per anni e anni e se lo era visto scivolar via dalle mani quando poteva essere arrivato il momento di raccogliere i frutti di tanta semina.
VERSO TORINO
Nella Race intanto Matteo, come dicevo. è n.8. Mancano ancora troppi mesi, tantissimi punti ATP in palio e da conquistare, per poter festeggiare la sua presenza alle finali ATP di Torino. Ma troppa gente nei mesi scorsi sembrava persuasa che le migliori chance di essere a Torino le avesse Jannik Sinner, che le nostre chance di avere un rappresentante italiano fossero tutte legate agli exploit del tennista altoatesino. Si parlava solo di lui, mentre Matteo pareva caduto nel dimenticatoio. L’infortunio in cui Matteo era incappato in Australia, sebbene fino a lì avesse giocato piuttosto bene, pareva quasi che per la gente non ci fosse stato. Capitava invece di leggere la sua progressiva retrocessione in termini di Race, quasi che Matteo avrebbe potuto inventarsi qualcos’altro per conquistare punti da infortunato. Chiaro che senza giocare i punti non poteva farli.
La cosa più bella di questi momenti d’oro del tennis italiano è essersi ritrovati con due italiani in finale in un Masters 1000 nell’arco di poco più di un mese, quando per anni dal 1990 a oggi ne avevamo avuto uno solo, Fabio Fognini nel 2019 a Montecarlo. Io non sono mai stato bravo in aritmetica, ma dal 1990 a 2019 ci sono 29 anni! E non è che, quando i Masters 1000 non si chiamavano così, ma i tornei di quello status erano più o meno gli stessi, Montecarlo, Roma, Canadian Open, Cincinnati eccetera, conquistassimo finali di quel rango a bizzeffe. Panatta, Bertolucci, Barazzutti e Zugarelli e stop. Roba vintage, anni Settanta.
Ma adesso non ci sentiamo di escludere che possano farcela per le ATP Finals sia Berrettini sia Sinner. Quando l’approdo alle ATP finals di Londra di Berrettini nel 2019 “coprì” un digiuno di 42 anni. Eppure entrambi i nostri potenziali top-Eight, a ben guardare non sono stati fortunatissimi, a mio avviso.
Sinner non ha davvero goduto di sorteggi particolarmente favorevoli. All’Australian open ha trovato subito Shapovalov all’indomani della vittoria di Melbourne 250 ATP. A Montecarlo ha trovato al suo secondo turno Djokovic che giocava il primo dopo il bye. Anche a Roma, insomma, ammesso che batta Humbert, Sinner troverà Nadal, che non è un bell’incontrare a Roma dove Rafa ha trionfato nove volte. Sarebbe stato meglio incontrarlo a Madrid, su quel tipo di superficie, no? Eppure Jannik è n.9 nella Race.
Quanto a Berrettini, abbiamo ricordato l’infortunio agli addominali che lo ha appiedato per due mesi, una convalescenza che lui per primo non si aspettava così lunga. Ciononostante è n.8. E se avesse potuto difendere le sue chance in quei due mesi non avrebbe avuto qualche punto in più?
Per questi motivi oggi non ci sentiamo di escludere che possano farcela tutti e due a centrare l’approdo di Torino. Quando se ne parlava a gennaio si diceva che era un sogno. Ma, siamo onesti, non solo avremmo firmato carte false per averne uno – e ancora le firmerei sia chiaro – ma ci credevamo tutti assai poco. Oggi, francamente, anche chi ama restare con i piedi per terra, ha invece il diritto di crederci. E di dire, sebbene io dagli Internazionali d’Italia una volta visto il tabellone abbia già scritto che non mi aspetto molto: why not?