Qui il link all’articolo originale; qui, invece, la recensione del New York Times
La benzina del successo tennistico di Arthur Ashe è stata la fiducia: ha affermato che se avesse creduto abbastanza in sé stesso avrebbe potuto colpire la pallina spalle alla rete. Nel 1968 ebbe un grande momento di forma, inanellando una striscia di due mesi senza sconfitte. All’atto conclusivo dello US Open batté Tom Okker, diventando il primo uomo di colore a vincere un titolo dello Slam in singolare maschile. Nel frattempo Ashe si trovava ad affrontare pressioni interiori ed esterne affinché prendesse posizione sui diritti civili: essendo cresciuto nel Sud segregazionista, era preoccupato dalla possibilità di contraccolpi violenti. Ma dopo la vittoria a Forest Hills era pronto a esporsi e farsi sentire, stando a quanto riporta un nuovo documentario, “Citizen Ashe” [riprendendo il titolo originale del film “Quarto potere”, vale a dire “Citizen Kane”, ndt], diretto da Rex Miller e Sam Pollard.
Nel film Johnnie Ashe ricorda che il fratello diceva: “Adesso sono un campione, le persone ascolteranno ciò che ho da dire. Sono il primo nero a vincere lo US Open, sarò richiestissimo“. Miller afferma che la previsione di Ashe si sarebbe presto avverata. “Letteralmente alcuni giorni dopo il successo di New York, Arthur era ospite nel programma ‘Meet the Press’ e decise di non poter più restare ai margini. Considerando anche gli eventi della primavera e dell’estate 1968, con gli assassinii di Martin Luther King e Robert Kennedy, le proteste per la Guerra del Vietnam, i sit-in, tutto ciò che stava accadendo nel Paese, per lui era arrivato il momento di prendere la parola“.
“Citizen Ashe” è stato presentato sugli schermi al Doc New York City Film Festival il 13 novembre, prima dell’uscita ufficiale del 3 dicembre (negli Stati Uniti). Ci sono rari contributi audio e fotografie della stella del tennis; il film mostra l’impatto di Ashe dentro e fuori dal campo prima della sua morte, avvenuta a 49 anni nel 1993 a causa delle complicazioni dovute all’AIDS.
Il documentario mette in evidenza due vittorie nei Major arrivate all’inizio e verso la fine della sua carriera – US Open 1968 e Wimbledon 1975, quando sconfisse Jimmy Connors grazie al piano di gioco ideato con un gruppo di amici. Inoltre approfondisce il suo attivismo, anche in Sudafrica, dove sfidò l’apartheid una volta saputo che Nelson Mandela era finito in carcere per aver provato a votare. Dopo la diagnosi di AIDS, Ashe creò una fondazione dedicata alla sconfitta del virus.
Nel film sono presenti interviste a persone a lui vicine, come la moglie Jeanne Moutoussamy-Ashe, co-produttrice della pellicola, e il fratello Johnnie. “Tutto questo non sarebbe stato possibile se Jeanne non avesse partecipato attivamente“, dice Miller. “Era parte integrante del progetto, impegnata nella riuscita del film in prima persona“. Jeanne anche aiutato il regista a contattare giocatori quali Charlie Pasarell (parte del gruppo che stilò il piano per battere Connors) e John McEnroe, che ebbe un rapporto complicato con Ashe quando quest’ultimo fece da mentore per la squadra americana di Coppa Davis.
Secondo Pollard, “Arthur, insieme a Jim Brown, Kareem Abdul-Jabbar e Bill Russell, è stato una sorta di modello da seguire per le stelle odierne Colin Kaepernick, Serena e Venus Williams, Naomi Osaka, LeBron James. Ciò che fanno loro oggi non si pone in una tradizione inaugurata da loro“.
Questo film dà uno sguardo sui momenti che hanno formato Ashe da giovanissimo a Richmond, Virginia. Il tennista ha raccontato che era normale per i bambini di colore chiedersi se avrebbero mai potuto vivere bene in una società segregazionista e che ogni giovane con “più di un pizzico di intelligenza” se ne sarebbe andato. Anche Arthur lo fece – prima andò a Saint Louis per terminare le superiori, poi al college all’Università della California a Los Angeles (UCLA). Richmond rimaneva un triste ricordo per Ashe: aveva perso sua madre a sei anni. Suo padre faceva il custode in un campo sportivo per soli neri, dove il giovane Arhur imparò a giocare a tennis e fu scoperto dall’allenatore Robert Johnson, il quale aveva notato anche la promessa di colore e pioniera Althea Gibson.
Il documentario mostra quanto fu decisivo il 1968 sia per Ashe sia per gli Stati Uniti, da molteplici punti di vista. La carriera sportiva del futuro campione stava decollando: fu il primo uomo di colore ad essere selezionato per la squadra americana di Coppa Davis. Inoltre era entrato nell’esercito, come tenente di stanza a West Point, mentre suo fratello era impiegato in Vietnam. Johnnie si rese volontario per un altro turno di servizio in Asia, permettendo ad Arthur di rimanere in patria. “Fu un grande sacrificio“, dice Pollard. “Devi amare molto tuo fratello per fare una cosa del genere“. Ashe andò comunque in Vietnam, dove si trovò in prima linea e vide con i propri occhi militari feriti in servizio, cosa che lo colpì molto. Nel film Johnnie Ashe descrive quei momenti: “In qualche modo gli eventi lo riportarono a casa. Ho fatto la cosa giusta, al momento giusto per il giusto motivo“.
Nel frattempo Arthur Ashe si interrogava se quella fosse anche l’occasione opportuna per prendere posizione sui diritti civili. Atleti di colore come Muhammad Ali, Abdul-Jabbar [all’epoca ancora noto come Lew Alcindor, ndt], Russell e Brown appoggiavano il movimento, così Harry Edwards chiese ad Ashe di fare altrettanto, ma c’erano dei fattori a complicare la decisione. “Specialmente nel Sud non volevi creare ondate di protesta su basi razziali e mettere in questo modo la tua vita in pericolo“, continua Pollard. “C’era una sorta di segregazione molto netta in USA su determinate problematiche relative al colore della pelle, in special modo nel Sud. Ashe sapeva quali erano le regole del gioco e che se fosse voluto sopravvivere in America non avrebbe dovuto creare movimenti di protesta. Dovevi fare la cosa giusta. Questo è ciò che significava essere nero all’epoca“.
Comunque il regista aggiunge che “l’autostima di Arthur stava crescendo. Poteva dire la sua – non come Ali o Russell, l’avrebbe fatto a modo suo. Come dice nel film Edwards, gli afroamericani non sono monolitici: non fanno tutti le stesse cose alla stessa maniera. L’attivismo di Ashe avrebbe avuto un impatto potente“. A marzo Arthur tenne un discorso sui diritti civili alla Chiesa del Redentore di Washington, discorso che venne criticato dai ranghi più alti dell’esercito. In aprile stava guidando sul George Washington Bridge quando apprese dalla radio che Martin Luther King era stato assassinato. Nel corso della campagna presidenziale, chiacchierò di tennis con il candidato democratico Robert Kennedy prima che anche lui venisse ucciso a giugno. Qualche mese più tardi, Ashe vinse lo US Open e a quel punto era pronto a parlare delle cause che sosteneva: dai diritti civili all’educazione per abolire l’apartheid.
“Stava cercando di cambiare il campo su cui giocare“, dice Miller. “Era ancora un patriota, era ancora nell’esercito e pensava che fosse la cosa giusta da fare. Era orgoglioso del servizio reso da suo fratello, e tutte queste cose andarono a incastrarsi quando conquistò il suo primo Slam – primo vincitore di colore in un Major e primo americano dell’era moderna a vincere a New York. Il trofeo gli garantì un palcoscenico dal quale poter dire la sua”.
Traduzione a cura di Lorenzo Andorlini