Nel 1979 Lucio Dalla regala alla musica “L’anno che verrà”, lettera agrodolce e appassionata all’Italia. La canzone termina con i versi “l’anno che sta arrivando tra un anno passerà, io mi sto preparando, è questa la novità”. Ecco, per molti appassionati è arrivato il momento di prepararsi al tennis che verrà.
Nell’ultimo mese e mezzo, chiusa la stagione dei tornei, abbiamo assistito alle Intesa Sanpaolo Next Gen ATP Finals, alle Nitto ATP Finals e alla Davis Cup by Rakuten, tre competizioni suggestive ognuna con meccanismi e regole diversi. Analizziamo la più rivoluzionaria, le Next Gen finals.
A scanso di equivoci, l’autore di questo articolo è un conservatore, un parruccone affezionato alla tradizione per il quale non dovrebbe esistere neanche il tie-break. Quindi, d’istinto, scarterebbe qualsiasi innovazione introdotta dalla kermesse tra i migliori Under 21 dell’anno; sennonché, l’obiettività giornalistica rende necessario cercare di cogliere le ragioni e gli eventuali pregi della formula attuale, prima di demolirla.
L’obiettivo non dichiarato ma evidente delle cinque giornate di Milano (un filo meno epiche di quelle risorgimentali) è rendere il tennis più “vendibile”, farne un prodotto di più facile consumo, attraverso i mantra della velocizzazione e della spettacolarizzazione. Entriamo nelle logiche dei due criteri guida.
Velocizzare, accorciare i tempi di gioco è da qualche decennio il cruccio degli sport che non hanno una fine prestabilita. Tra tutti, vengono in mente la pallavolo e la cancellazione nel 2000 del “cambio palla”, un pilastro del volley, tolto il quale i set oggi paiono efficienti tapis roulant su cui camminano palleggiatori zoppi. Il tennis non si è sottratto alla politica di abbreviare le partite allo scopo di aumentarne l’appetibilità televisiva: già dagli anni Settanta ha introdotto il già citato tie-break, ora esteso anche all’ultimo set degli Slam, con l’eccezione di quei cocciuti reazionari dei francesi; poi ha ridimensionato la lunghezza delle finali dei Masters 1000, portandole da tre set su cinque a due su tre, ha posto un limite di secondi tra un punto e l’altro – il famigerato shot clock – e infine ha ridotto i tempi di riscaldamento pre-gara e, sulla scorta delle pause ad libitum di Tsitsipas, si appresta a contingentare numero e durata delle interruzioni di natura “fisiologica”.
Per integrare l’indagine sull’argomento, abbiamo calcolato il tempo effettivo di un match, vale a dire il tempo che i tennisti trascorrono a colpire la palla. Ebbene, su una base abbastanza attendibile di cinque incontri, è risultato pari a un quinto della durata complessiva, quella certificata dal Rolex posto a fondocampo. In altre parole, se una partita raggiunge le due ore di gioco, la somma cronometrica degli scambi fin lì giocati ammonta a 24 minuti.
Pur non avendo ancora effettuato riscontri “scientifici”, la sensazione è che soltanto sport dall’indole fortemente “statica”, come football americano e baseball, abbiano proporzioni di gioco effettivo simili al tennis. Questi sport mutuano la propria natura direttamente dallo schematismo anglosassone: una squadra attacca e una difende, poi si invertono le parti, modello ordinato e democratico, tuttavia portatore di inevitabili lungaggini. La causa dell’esiguo tempo effettivo nel tennis risiede invece nell’abbondanza di tempi “morti”: non c’è la possibilità di sostituire il giocatore come negli sport di squadra, scende in campo un uomo solo che si spreme a ogni scambio, a ogni game e, dopo un tale sforzo psico-atletico, ha bisogno di tempo in più per recuperare energie.
Con lo scopo di compensare questi ineluttabili tempi morti, le Next Gen Finals hanno introdotto lo strumento del “deciding point”, il più innovativo e impattante. Non ci sono dubbi sull’efficacia, prevedere che sul 40-40 chi fa il punto vince il game, quindi chiuderlo al più tardi al settimo punto, riduce e di molto la lunghezza di un set. Però. Però viene totalmente annientata l’epica dei games eterni, quelli che tendono all’infinito, che vengono accompagnati dal cronometro in basso a destra, 13 minuti di game, 17 minuti di game e chissà quanti altri ancora; quei game che spesso decidono l’esito di un set, perché chi li porta a casa si esalta, chi li perde si deprime. Quei game che incollano alla sedia lo spettatore. Inoltre, il tennis moderno è già subordinato allo strapotere del servizio, è un crimine tagliare via i momenti in cui il battitore fa fatica, consentendogli di scagliare un ace sul 40-40 – può pure scegliersi il lato dove servire – e aggiudicarsi così il game.
Spettacolarizzare, il secondo dogma di ATP e ITF. Anche qui le regole del tennis riecheggiano altri sport: il calcio ha vietato al portiere di usare le mani sul retropassaggio di un compagno, ha previsto l’espulsione da ultimo uomo, ha emendato, una dozzina di volte, le leggi del fuorigioco, con l’intento esclusivo di veder finire più palloni in fondo alla rete e inebriare di sollazzo il tifoso sul divano. Il basket ha introdotto il tiro da tre, l’atletica ha cambiato i materiali delle piste per abbattere più record possibili. Niente di trascendentale, dunque, che a questa filosofia si adegui anche il tennis. Tuttavia ci sono limiti dettati dal buon senso: non si può pretendere ovunque il silenzio e il bianco dei Championship – sarebbe un sogno – ma siamo sicuri che trasformare un campo da tennis in un rave party, con musica house, luci stroboscopiche, scritte colossali che ci avvisano di un break point, arricchisca lo spettacolo sportivo anziché precipitarlo nel pozzo di un fenomeno da baraccone rumoroso e molesto?
Una riflessione a parte merita la seconda novità più vistosa delle Next Gen Finals dopo il “deciding point”: il set a 4 game. I sostenitori dicono che rende ogni punto “importante”, perché si ha meno margine per rimontare quando si è sotto. Può essere, ma il tennis è lo sport delle occasioni, il suo valore aggiunto è l’incertezza, l’aleatorietà, la percezione che un giocatore possa recuperare anche sotto 1-5, magari approfittando di un calo di tensione dell’altro o magari grazie a quindici minuti di sublimazione tecnica. Senza considerare che il set a 4 comporta una percentuale altissima di tie-break (chissà perché previsti sul 3-3 e non sul 4-4), con l’ovvia conseguenza di enfatizzare ancora una volta l’incidenza del servizio. Su 10-12 games non è scritto che si arrivi per forza al 6-6, è più facile che ci siano break e contro-break, e sono questi gli ingredienti dello sport del diavolo, altrimenti possiamo pure chiamarlo “sport del tie-break” (o del “jeu decisif”).
Diverso è il discorso del coaching libero, ossia la facoltà per l’allenatore di dare consigli durante il match: se l’hanno pensato per drammatizzare, inserire un elemento di “umanità” o di strategia bellica, non sembra che finora abbia avuto particolare successo (si tratta sempre di un’opinione personale, beninteso). Se invece hanno voluto aumentare la performance di un giocatore, e quindi il livello di spettacolo, attraverso la possibilità di ricevere indicazioni esterne, allora non sembra il caso di condannarlo, perché in fondo è ridicolo censurare il coaching: da un lato già si pratica abbondantemente via linguaggio paraverbale o pupazzetti posizionati ad hoc, da un altro non è automatico che, sapendo cosa fare, un giocatore sia in grado di farlo, già che c’è pure un avversario di mezzo.
C’è invece una regola (testata nella prima edizione) che potrebbe essere reintrodotta, vale a dire la prosecuzione del gioco sull’eventuale nastro colpito col servizio: quello sì è un fattore destabilizzante, esattamente come il nastro colpito durante lo scambio; delle due l’una, o lasci giocare sempre o fai ripetere sempre il punto, che il net intervenga sulla battuta o in corso di scambio. Oltre a rispettare un parametro logico, rappresenterebbe un altro modo per depotenziare l’arroganza della battuta nel tennis odierno.
Della “rivoluzione” proposta dalle Next Gen Finals, in sintesi le idee più futuribili parrebbero il coaching selvaggio, l’automazione su palla dentro o fuori – “occhio di falco” per intenderci – da estendere ad ogni torneo, anche sulla terra, eliminando i giudici di linea prima che lo faccia qualcuno con la racchetta, e la prosecuzione del gioco sul net al servizio. Shot clock e toilet break breve sono ormai consolidati nel circuito.
In ogni caso, al di là dell’esame sulla “consistenza” di possibili novità regolamentari, rimane la convinzione che l’urgenza di spettacolarizzazione snaturi lo spirito del tennis e non apporti nessun reale beneficio: chi ha sempre trovato il tennis noioso, lo troverà ancora noioso, pur circondati da laser e suoni vedrà ancora due uomini-robot che si ributtano la palla da una parte all’altra per ore. Chi il tennis lo ama, continuerà ad amarlo anche senza il luna park intorno.
Che poi il nostro è già uno sport altamente “televisivo”, pensiamo soltanto ai novanta secondi dei cambi campo, ideali per lanciare due, tre spot pubblicitari ogni 5-6 minuti. Ma vogliamo che sia più “commerciale”? Va bene, proviamo ad azzardare qualche spunto.
Per velocizzare, è sufficiente che un match duri un’ora, cinque servizi a testa, cambio campo di un minuto ogni dieci punti, chi fa più punti nell’ora vince; previsto un bonus di 5 punti ATP per ogni punto di differenza con l’avversario.
Per spettacolarizzare, basta abolire la seconda palla di servizio: più scambi e più enfasi sulle implicazioni psicologiche (come si comporterebbe Zverev?!). Altra idea: dopo mezz’ora i giocatori si esibiscono in un numero da circo a testa, chessò palleggiare col telaio della racchetta, centrare bersagli sparsi per il campo, eseguire una dozzina di tweener, giocare bendati, al più gradito dal pubblico vanno 10 punti ATP; e ancora, a fine match entrambi i tennisti giocano cinque punti con uno spettatore estratto a caso, per ogni punto perso vengono detratti 15 punti ATP.
L’autore di questo pezzo ne avrebbe a dozzine, ora però scrivetelo voi cosa fareste per vivacizzare quel mortorio che ATP e ITF pensano sia diventato il tennis…
Articolo a cura di Andrea Negro