Il protagonista della Grande Sfida a Genova e Milano (17-18 ottobre), con il “nemico” Ivan Lendl, Goran Ivanisevic e Michael Chang, è stato un vincente. Ma la grandezza del genio di Wiesbaden va forse cercata altrove. Storia di un ragazzo che è stato il tennis forse più di chiunque altro
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http://www.lagrandesfida.net/ (per sapere tutto sull’evento che vedrà protagonista John McEnroe, 7 Slam e altri 3 vincitori di 10 Slam)
Se aprite la pagina italiana di wikipedia dedicata a “Superbrat” vi imbattete subito in una delle più belle affermazioni che vi possa capitare di leggere: “Sarei disposto ad avere 37 e 2 tutta la vita in cambio della seconda di servizio di McEnroe“. Dell’autore non è il caso di parlare qui, qualsiasi elogio non gli renderebbe giustizia, è stato molto meglio e molto di più. Ma il fatto di essere disposti a peggiorare la propria qualità della vita in cambio di un colpo, e neanche tanto decisivo, sembra fare giustizia di qualsiasi analisi quantitativa applicata alla vita e alla carriera di uno sportivo o, dio ce ne scampi, di una squadra. Queste cose gli appassionati di calcio le sanno da una vita e nessuno si sognerebbe mai di pensare ad un Platini o ad un Messi o Di Stefano o Crujiff (l’elenco è potenzialmente infinito) come calciatori peggiori di Cafu o Toni o Brehme (altro elenco infinito). Ma anche gli appassionati di tennis meno interessati alle superficiali statistiche che vogliono un giocatore fenomenale solo se in grado di vincere 47 Wimbledon o fare 54 volte il grande Slam, sanno queste piccole verità da sempre. Non si spiegherebbe altrimenti l’alone divino che continua a circondare SuperMac, forse il giocatore che ha saputo incarnare meglio di tutti quella strana cosa chiamata tennis. Come di tutti i grandi tennisti i numeri di Mc sono abbastanza noti e non c’è molto da scialare. I suoi 7 slam vinti sono né più né meno quelli di Mats Wilander o di William Larned (chi?), meno di quelli di Agassi, Lendl e Connors, qualcosina in più di quelli di Becker e di Edberg o di un mostro sacro come Don Budge, che tutti ricordano per via del Grande Slam completato nel 1938. Ma chi mai si sognerebbe di accostare l’uomo “dal cui tocco mi piacerebbe farmi accarezzare, se fossi un po’ più gay” al Kid sparapalle di Las Vegas o anche allo stesso angelo svedese dei prati? L’uomo di Weisbaden, che “didn’t pay the price”, ha semplicemente mostrato come con quella palla di gomma rivestita di feltro di neanche 60 grammi si potesse fare meglio di un pittore col suo pennello, di un musicista col suo pentagramma, di un povero cronista con la sua tastiera. E non può certo essere un caso che più delle sue vittorie si ricordino le sue sconfitte. Come quella del 1980 contro Borg dopo un tiebreak che non serve ricordare; o quella del 1984 dopo che per un paio d’ore aveva portato l’esterefatto Lendl alle soglie di un esaurimento nervoso ma che gli ha ricordato che anche il tennis è una noble art e alla fine puoi essere Picasso ma devi rimanere in piedi se vuoi vincere. Ma cosa può importare questo se quando lo vedevi giocare ti sembrava di assistere a degli “assolo di jazz, di musica sconsacrata”? Se Ian MacKellen quando dovrà declamare con Coriolano che “chi è già deciso a morire di propria mano non teme di morire per mano altrui” non trova di meglio che ispirarsi a lui?
Le sue assurde demi-volèe dalla linea del servizio, dalle parti di quella che viene chiamata “terra di nessuno” perché non devi giocarci, quella posizione da fregio egizio assunta nel momento del servizio, quella volée che avevi impressione non toccasse la racchetta, non ne sentivi il rumore. Questo è stato John McEnroe. Ed è forse soltanto un semi incidente di percorso, il 1984, quando non solo perse appena tre partite, ma vinceva senza soffrire mai. Mai. Potevano esserci Laver o Sampras, Tilden o Hoad, ma gli avrebbero fatto il solletico. Non poteva durare, Mc era altro, e di più, che vittorie su vittorie.
John McEnroe è stato Mozart, come disse Tom Hulce, che lo prese come modello per rifare Amadeus.
Eduardo Galeano, ha coniato una volta e per sempre la caratteristica che davvero unisce alcuni uomini: non sono, non siamo, altro che dei mendicanti di bellezza che non hanno niente da chiedere se non soltanto di vedere un gesto, un dribbling, un dropshot, un cross, una demivolée, un gol, uno smash.
Ecco quanto valeva John Patrick McEnroe Jr.