In questo articolo di Simon Briggs pubblicato su The Sydney Morning Herald, di cui vi proponiamo la traduzione integrale, viene discussa la possibilità di portare al meglio dei cinque set la finale degli Slam femminili
Sabato 29 gennaio, poco dopo le 21, Ashleigh Barty ha piazzato un vincente di dritto contro la sua avversaria Danielle Collins e ha alzato le braccia al cielo facendo esplodere la sua gioia. È stato un momento memorabile per il tennis australiano, dopo 44 anni finalmente un vincitore australiano. Ma come finale di un Grande Slam? Direi appena decente. Difficile definirla eccezionale. Ora proviamo ad immaginare come sarebbe andata se la partita fosse proseguita. Se le fosse stata data la possibilità di giocare un altro set, la Collins avrebbe potuto mettere in piedi una rimonta in stile Rafael Nadal? Non sapremo mai la risposta. Ma è frustrante pensare che non abbia avuto la possibilità di provarci, soprattutto dopo le scene esaltanti a cui abbiamo assistito domenica sera.
La Collins ha iniziato la partita lentamente, per nervosismo o per stanchezza, proprio come ha fatto Nadal 24 ore dopo contro Daniil Medvedev. Aveva reagito veementemente in un avvincente secondo set, senza però riuscire a portarlo a casa. Ancora una volta, proprio come Nadal. Ma mentre la finale maschile è diventata una di quelle partite che rimarranno impresse nella mente di molti – un magnifico fiore all’occhiello delle tante virtù del tennis – la finale femminile è rimasta solo un onesto titolo da giornale: “Ashleigh Barty pone fine alla siccità australiana”. Il risultato è stato giustamente celebrato, ma non c’è stata quasi una parola sulla partita che si è giocata in campo. Il contrasto tra queste finali cresce a ogni Slam. La stragrande maggioranza dei fan ama le dinamiche del tennis al meglio dei cinque set e gli uomini sono costantemente all’altezza delle aspettative con incontri pieni di colpi di scena. L’alta qualità media delle finali maschili è testimoniata dallo sgomento con cui vengono accolte le rare occasioni che hanno deluso le aspettative. Quando Novak Djokovic ha spazzato via Medvedev in Australia l’anno scorso in soli 113 minuti, tutti sono andati via con un senso di anti-climax, chiedendosi: “Tutto qui?”
Le giocatrici, invece, spesso entrano ed escono di scena in meno di 90 minuti, come una band emergente ancora a corto di canzoni. Di tanto in tanto capita di vedere qualche partita notevole, come a Wimbledon l’anno scorso, quando la Barty ha avuto bisogno di quasi due ore per superare una coriacea Karolina Pliskova. Ma si è trattato di un evento piuttosto inusuale. Tra l’altro era da nove anni che sul Centre Court non si assisteva a un set decisivo il giorno della finale femminile. Attualmente si sa che il tennis femminile è aperto a qualunque risultato. Dopo l’ultima finale raggiunta da Serena Williams in un major, a settembre del 2019, Barty e Naomi Osaka sono le uniche giocatrici ad aver giocato più di una finale. Comunque solo in due occasioni.
Quando raggiungono per la prima volta una finale, molti giocatori iniziano il match nervosi e impreparati. Di solito hanno bisogno di tempo per entrare in partita. E una volta che l’hanno fatto, spesso è troppo tardi. Quei livelli di stress potrebbero essere potenzialmente compensati da un “formato” più lungo, proprio come ogni studente sarebbe felice di avere una settimana in più per prepararsi per un esame. Per entrambi i sessi giocare al meglio di cinque set durante un intero major sarebbe improponibile. Semplicemente non c’è abbastanza tempo. Durante i primi turni, finirebbero ogni giorno alle 4 del mattino. La soluzione ideale sarebbe quella di giocare al meglio dei tre set nella prima settimana, sia per gli uomini che per le donne, e dai quarti di finale giocare al meglio dei cinque. Eppure, dato che il tennis fatica ad “allacciarsi le scarpe”, amministrativamente parlando, sarebbe forse saggio iniziare con piccoli passi. Si potrebbe iniziare mettendo in scena una finale femminile al meglio dei cinque set, proprio come avveniva nei vecchi ATP Master Series fino al primo decennio degli anni duemila.
Se dovesse funzionare, con il tempo si potrebbe estendere il format agli ultimi tre turni. Attualmente il netto contrasto tra il tempo di trasmissione e la proiezione è ingiusto nei confronti di grandi campionesse come Barty e Osaka. Nella maggior parte degli Slam recenti (anche se non in questo Australian Open), il tabellone femminile ha offerto molte più emozioni rispetto a quello maschile. Diamo loro la possibilità di brillare.
Traduzione di Massimo Volpati