Nel primo episodio di questa mini-serie di analisi dello stato di salute dei movimenti tennistici maschili di due Paesi centrali nella storia del nostro sport ci siamo concentrati sulla Francia. Ora tocca agli Stati Uniti.
La Laver Cup è quanto di più vicino esista alla Ryder Cup del golf. Se in quest’ultima si affrontano una selezione di giocatori europei e una di americani, nell’evento ideato da Federer l’Europa rimane una costante, ma al posto degli USA c’è un più indefinito “Resto del mondo”. Potrebbe essere sufficiente constatare questa differenza per capire che gli Stati Uniti del tennis non sono più quelli di una volta. Fino all’inizio del nuovo millennio, infatti, se fosse nata una competizione di questo genere non si sarebbe scappati dal confronto tra Europa e Stati Uniti.
C’erano una volta Sampras e Agassi oppure McEnroe e Connors, o ancora Ashe e Smith, fino ad approdare con la macchina del tempo alle origini del tennis moderno con Richard Sears. Il torto fatto a chi non è stato nominato è grande. Del resto, è impossibile citare tutti i 48 campioni Slam americani. L’ultimo di questi è Andy Roddick, vincitore dello US Open nel 2003. Si rischia, insomma, di arrivare a 20 anni di astinenza. In questo periodo il tennis maschile a stelle e strisce ha avuto buoni giocatori come Blake, Fish e poi Isner, ma ha peccato di versatilità: non si è mai andato molto oltre i big server. Meno talento rispetto alla generazione d’oro francese di Tsonga & co., anche se i risultati sono stati simili. Oggi, però, dopo una serie di promesse non mantenute (Harrison, Young e Donaldson per citarne alcuni), si intravedono segnali di un’inversione di tendenza.
Se, come visto nella prima “puntata”, il tennis maschile d’oltralpe ha toccato il fondo con il Roland Garros del 2021, il punto più basso per gli Stati Uniti è arrivato quasi contemporanemente. Il lunedì precedente all’inizio di quell’edizione dello Slam parigino, è stato il primo nell’era del ranking computerizzato (iniziata nel 1973) senza giocatori americani tra i primi 30 del mondo. Indubbiamente un momento simbolico, testimone di un decennio abbondante senza nessun grande campione, ma da non confondere con una sentenza anche sugli anni avvenire. Non a caso, nel dicembre del 2020, l’Hall of Famer Steve Flink, in una delle chiacchierate con il nostro direttore Scanagatta, si pronunciava così sulla crisi del tennis maschile a stelle e strisce: “Il fenomeno è in parte inspiegabile, per me: abbiamo ottimi allenatori e programmi molto buoni e, malgrado la fuga dei giovani verso altri sport, ci sono sempre numerose giovani promesse”.
Già da una decina di anni, infatti, oltreoceano, l’approccio al tennis era cambiato. Durante l’ultimo Wimbledon Matthew Futterman, sul New York Times, ha ricostruito le tappe della svolta. Per cercare di resistere alla concorrenza di sport meno costosi e più immediatamente remunerativi, la Federazione (USTA) ha sviluppato un programma su tre livelli – locale, regionale e nazionale – così da riunire i maggiori talenti in alcune occasioni annuali ma anche al fine di permettere ai giovani giocatori di restare a casa e di lavorare con i propri allenatori il più possibile.
In più, proprio per ovviare ai problemi economici, i raduni nazionali sono praticamente gratuiti (si deve pagare solo il biglietto aereo per arrivare a destinazione) e una parte del budget stanziato dalla Federazione serve a rendere possibile la partecipazione anche dei coach privati in modo che possano collaborare con i tecnici federali nel processo di formazione del giocatore. L’obiettivo non è “trovare un unicorno”, ma costruire un movimento profondo, nella speranza che vi sia anche qualche campione. Il primo passo sembra essere stato completato con successo: attualmente gli Stati Uniti hanno otto rappresentanti under 25 nelle prime 61 posizioni e cinque nelle top 40. Nessuna nazione regge il confronto.
Nella prima “puntata” sulla Francia, abbiamo riportato le parole dell’allenatore Jan de Witt che consigliava alla Federazione francese di scegliere un’unica strada e perseguirla a lungo termine. In un Paese dalle enormi proporzioni come gli Stati Uniti, invece, la chiave è contemplare più realtà e adattarsi ad esse. Per questo, tra i giocatori americani in rampa di lancio, ve ne sono alcuni (Fritz, Tiafoe, Opelka) che hanno a lungo fatto parte del programma della USTA e altri (Brooksby, Nakashima e Korda) che ne sono stati prevalentemente fuori, ma che hanno comunque potuto usufruire di un importante appoggio finanziario e che sono sempre stati accolti a braccia aperte nei centri federali. È quanto riferito dal general manager della sezione ‘sviluppo giocatori’ della Federazione americana, Martin Blackman, al New York Times.
Blackman ha sottolineato anche il cambio di passo della Federazione anche a livello tecnico. Non si usa più lo stampino nel produrre gli atleti, tutti gli stili di gioco vengono valorizzati parimenti. Ecco perché adesso gli States sono rappresentati nel circuito ATP anche da giocatori atipici come Cressy (con il suo serve and volley) e Brooksby (con i suoi tagli sia dal lato del dritto che del rovescio) e da altri che puntano a fare della completezza il loro marchio di fabbrica come Korda (capace di battere Alcaraz sul rosso) e Nakashima (giocatore a tutto campo). È l’unico modo per tornare al centro della mappa del tennis che nel frattempo si è allargata a dismisura.
La USTA ha avviato anche il progetto “Net Generation” che punta ad avvicinare le nuove generazioni al tennis attraverso modalità di allenamento innovative. È necessario se si guarda ai numeri pubblicati tre anni fa dalla Sports and Fitness Industry Association, secondo cui solo il 4,3 per cento dei bambini fra i 6 e i 12 anni giocava regolarmente a tennis (dietro anche al golf in questa graduatoria). La pandemia potrebbe aver dato una mano nell’attrarre i giovani: dalla chiusura delle palestre e dalla sospensione degli sport di squadra, il tennis ne ha beneficiato registrando un +22% di praticanti nel 2020. Magari tra i 3 milioni di neofiti c’è anche qualche potenziale campione.
Intanto, oltre ai giocatori che si sono già fatti conoscere dal grande pubblico, ci sono anche un paio di giovani talenti nelle prime 30 posizioni della Race (oltre a Nakashima che è ottavo): Nava e Shelton. Quest’ultimo ha ottenuto la prima vittoria ATP la scorsa settimana ad Atlanta e ha messo in seria difficoltà Isner che a fine partita si è espresso così: “Il tennis maschile americano è in grande ascesa e Shelton fa parte di ciò”. Durante l’ultimo Wimbledon, otto statunitensi hanno raggiunto il terzo turno: non ce ne erano tanti a questo livello di uno Slam dal 1996. Uno di loro, Fritz (attuale numero 13 del mondo ma che punta a finire l’anno in top 10), è anche andato vicino a raggiungere la semifinale: sarebbe stata la prima in un major dopo quattro anni senza per gli States. Lo stesso Taylor, però, a marzo ha quantomeno interrotto il digiuno degli americani nei Masters 1000 (anche questo arrivato a quattro anni) vincendo Indian Wells. È uno dei cinque titoli conquistati quest’anno da tennisti USA.
Ora, però, viene il bello. È infatti iniziato il periodo della stagione in cui Frtiz & co. giocano in casa, o comunque sulla superficie tendenzialmente più adatta alle loro caratteristiche. Non si può pensare di vedere un americano vincere lo US Open già quest’anno – a meno di sorprese – ma i tornei in corso e quelli delle prossime settimane rappresentano un importante crush test per le nuove leve americane. Ci si aspetta molto anche da Korda, forse il giocatore con i margini di miglioramento più ampi tra quelli nati tra il ’97 e il 2001, che ha faticato nella prima parte di stagione.
E dopo lo swing sul cemento nordamericano, ci sarà la Davis. Anche in questo caso, le condizioni di gioco potrebbero aiutare il team USA che è stato sorteggiato in un girone abbordabile con Olanda, GB e Kazakistan. Gli Stati Uniti hanno sollevato l’insalatiera per ben 32 volte: l’ultima nel 2007. Il capitano Courier e l’esperto Isner sono pronti a prendere in prestito lo slogan elettorale di Reagan (e utilizzato più recentemente da Trump) per spingere i più giovani: let’s make America great again!