Si dice che Mitridate, Re del Ponto, fosse talmente impaurito dall’idea di essere ucciso per mano di qualcuno della sua corte, da ingerire quotidianamente piccole dosi di veleno. Così facendo, quando poi Mitridate cercò di uccidersi da solo, ingerendone una fiala intera, fallì, risultandovi oramai immune. Ne nacque il termine “mitriditizzarsi”, vale a dire assuefarsi preventivamente ad un dolore immenso attraverso piccoli e costanti dispiaceri. Un’omeopatia dei sentimenti, infinitamente diffusa, spesso involontaria.
Si dirà anche che 2000 anni dopo Mitridate, milioni di persone nel mondo abbiano ingerito, giorno dopo giorno, tweet dopo tweet, notizia dopo intervista, attraverso piccole dosi di cruda realtà, lo stesso veleno. A piccole dosi tutti hanno ingerito in questi tre anni il veleno che annunciava la fine della carriera tennistica di Roger Federer, l’abbandono sportivo da parte del tennista svizzero di un corpo martoriato dalle operazioni chirurgiche, da 1500 partite di tennis, da 41 anni di vita terrena e da quattro figli che avranno pur preteso di giocare al cavalluccio con il loro papà.
Oggi, a guardarsi intorno in questa valle di lacrime, possiamo dire che Mitridate era solo un mitologico millantatore.
Nessuno si illudeva che Federer potesse tornare ad essere Federer. Molti avevano compreso che lo svizzero non era più il giocatore di un tempo. E chi ci credeva ancora, guardò alla sua ultima partita, al 6-0 rifilatogli da un tale Hurkacz sul campo centrale di Wimbledon, come si guarda a un brutto sogno dal quale è facile scappare. Chi ci credeva ancora avrebbe voluto che Federer continuasse a giocare, con un filo di impertinenza e educata indifferenza verso la persona. Chi ci credeva, avrebbe forse voluto un’ultima vittoria contro Nadal o contro Djokovic, smontandosi pezzo dopo pezzo sul campo, perdendo un ginocchio in uno scatto, la schiena in un servizio, un gomito alla volée, finché nel rettangolo di gioco non sarebbero rimasti i resti cannibalizzati dall’infinito amore.
Chi invece conosce cosa sono gli anni, già sapeva che Roger Federer non avrebbe lasciato il tennis alzando un trofeo, come riuscì a Sampras che lasciò il tennis a braccia alzate. Chi c’era lo ricorderà. Sampras alzò la coppa, salutò, e tutti lo avrebbero ricordato in eterno come il migliore, come l’invictus. L’ultima immagine del grande Pete fu il trionfo. L’ultima di Roger, un comunicato stampa. Forse un’ecografia.
Che il gran finale non gli sarebbe riuscito, lo si è scoperto tre anni fa, quando nella finale di Wimbledon 2019, si portò sul più celebre 40-15 della storia. Di quell’incontro non si smetterà mai di parlare, per questo smetto di parlarne almeno io. In realtà i gran finali perduti da Roger sono più numerosi, ma è davvero difficile spiegare il perché. Il veleno al quale non ci siamo immunizzati, sta ancora facendo effetto: sarebbe stato meglio espellerlo prima di scrivere, perché i miei pensieri su quello che sta accadendo nello sport che amo, mi sembrano ancora confusi.
Qualcuno però ricorderà la premiazione degli Australian Open del 2006. Settimo slam in cascina, finale senza grandi patemi con Baghdatis. Solita routine. Eppure, alla premiazione, l’emozione recitò un monologo che nessuno si aspettava. Federer non riuscì a parlare. Balbettò, disse cose confuse delle quali qualcuno addirittura rise. Poi pianse, un po’ dal nulla. La Rod Laver Arena si stupì per le lacrime del vincitore e cominciò a chiedersi se quello slam, da molti considerato il meno importante dei quattro, non nascondesse un segreto. Quando Rod Laver gli diede la coppa, fu abbracciato dal nostro Roger alla maniera di chi ti stringe quando ci si sente soli, davanti a 20.000 persone. La scena fu talmente forte da trasformare la pubblica cerimonia in un racconto della persona, in un’intima manifestazione del sé.
Io, che all’epoca mi limitavo ad apprezzare tantissimo Roger il tennista, l’elegante esecutore di ogni colpo che la fisica consentisse, in quel preciso momento attraversai lo specchio che conduceva verso Roger Federer persona. E non ne sono uscito più.
Da allora, ogni partita di Federer cui ho avuto la fortuna di assistere ha smesso di essere un affare sportivo ed è diventata un’indagine sull’uomo. “Cosa sente ora che ha vinto? Cosa ha pensato prima di sbagliare quel colpo? Cosa prova a giocare così bene, e cosa prova ora che l’altro gioca meglio di lui?”.
Prendevo appunti mentali guardandolo giocare. Arricchivo di dettagli postumi la figura del campione che io volevo essere a dieci anni, quando un altro me, nella sua stanza di infanzia, agitava la racchetta, batteva tutto e tutti e si portava a casa uno slam, fatto di pallide speranze e di pomeriggi di maggio.
Una volta che si attraversa lo specchio, tante considerazioni appaiono banali e sterotipate.
Si è scritto, anni fa, che Federer fosse un tennista freddo, un tennista che poiché aveva represso le sue furie giovanili, era stato reso un automa, o peggio, un frustrato. Non è necessario dimostrare il contrario, da sempre sotto gli occhi di tutti. È più utile spiegare che questa idea serpeggiò in chi non poteva ammettere che una persona, che abbiamo scoperto essere fragile ed emotiva, vincesse così tanto, alla maniera di un robot come Lendl o come Borg. Questa idea fu partorita dalle menti di chi non accettava la normalità di un talento privo di precedenti, dalle menti di chi non accetta ancora oggi che al tuo fianco possa esserci qualcuno benedetto dagli dèi.
Così come si discuterà in eterno sul suo essere stato il migliore di tutti i tempi, come se il tempo nel tennis sia un’oggettiva unità di misura. Come se i numeri potessero parlare in uno sport fatto di infinite variabili, di superfici che cambiano, palline che si ingrandiscono, e che invece sono meno oggettivi degli occhi di chi guarda ed esprime il suo giudizio.
Così come oggi si scrive, ancora un falso, che Roger Federer abbia cambiato il tennis. Guardatelo il nostro tennis, oggi. E ditemi in cosa Federer lo avrebbe cambiato, o ditemi cosa, di questo cambiamento da lui attuato, oggi resti e si possa toccare. Federer è stato la punta di un compasso che si è allargato fino a smontarsi. Le unghie di Federer hanno tenuto agganciata un’era ad un’altra. Un ponte lungo 24 anni è stato l’ultimo nobile terreno su cui ci è stato concesso di passeggiare prima di approdare ad una terra anonima, in cui tutto è uguale. Impressiona pensare che Roger abbia detto addio un minuto dopo la salita sul trono di un 19enne che si dichiara suo fan, ma che è soltanto il principe dei cloni.
Perdonatemi, e mi perdoni Carlos Alcaraz, è colpa del veleno, ché scarica la rabbia anche addosso agli innocenti.
Gli chiesi in una conferenza stampa a Parigi se sapesse che dopo di lui, nessuno avrebbe giocato i suoi colpi. La timidezza mi impedì di chiedergli quel che intendevo sul serio, cioè se avesse compreso che lui era semplicemente l’ultimo. Sperai che gridasse, nella sua lingua natia, “Kameraden, ich bin der Letzte!” (Compagni! Io sono l’ultimo!), come fece l’ultimo internato ribelle di Auschwitz dinanzi ad un disilluso Primo Levi. Invece mi guardò severo, e mi rispose che non era vero, che ci sarebbero stati nuovi tennisti da seguire, che lui avrebbe guardato le giovani generazioni con interesse. Poi si volse altrove. Lo infastidì la domanda, forse anche la risposta. “Bugiardo”, pensai. Bugiardo anche adesso che te ne vai.
Epurandoci da ogni forma di sentimento, che senso ha dolersi del fatto che un ricco sportivo svizzero non colpirà più una palla di feltro e caucciù con lo scopo di vincere un torneo? Perché soffrirne? Perché trasformare questi giorni in un cinque maggio laico, in un lutto secolare, tutti a recitare “Ei fu”, mentre i nostri problemi vanno avanti? Perché una passione sportiva, verso quello che è null’altro che un gioco, che sia diretta verso un tennista o verso una squadra di calcio, dilaga in qualcosa di così simile all’amore?
Attraversare lo specchio che separa un’immagine pubblica di uno sportivo, da quella privata di un uomo che non si è mai conosciuto, è un viaggio personale. Come può esserlo un imbarazzante abbraccio a Rod Laver. Come può esserlo fermarsi di blocco sul 40-15 di una finale londinese, spegnere i motori per volare ad aliante, così da meglio respirare l’ansia.
È un viaggio che nessuno sa spiegare, perché nessuno è in grado di spiegarci perché una cosa ci piace, perché siamo così diversi, perché si ama.
Lo facciamo forse, e spero che qualcuno si ritrovi in queste parole, perché abbiamo tutti bisogno di qualcosa. Qualcosa che ci è mancata perché non l’abbiamo mai avuta, o qualcosa che ci manca perché l’abbiamo perduta. Qualcosa di antico che un poco di psicanalisi da quattro soldi riesumerebbe dalla nostra infanzia, in quei sogni di gloria mai diventati realtà, veleni di Mitridate al contrario.
Mi ha scritto un amico dicendomi che quando si leggono certe notizie, ci si sente più vecchi. È proprio il contrario. Questi episodi fanno tutt’altro. Sollevano dalla sabbia i fili d’argento per anni celati, li tendono, scrollano via la polvere e ci connettono a quando eravamo bambini. Riattivano i cordoni ombelicali con epoche nelle quali l’anima si impregnava di sogni, e se uno di questi sogni svanisce, un’increspatura attraversa il tempo e rende tristi i bambini che eravamo.
Lo sport è essere bambini, quando tutto è gara, quando un piatto di verdure sei convinto a mangiarlo solo perché un altro bambino lo ha già fatto, quando in cento metri percorsi con tuo padre, riesci a simulare almeno sei gare di un’Olimpiade.
Roger Federer, per noi che lo abbiamo amato, è stato l’avatar dei nostri sogni sportivi. La rappresentazione tangibile che, anche se per interposta persona, i nostri sogni erano veri. E ora che quell’avatar lo si ripone in cantina, che non esiste più più una forma fisica che sogna per noi, ci scopriamo non più capaci di farlo. Ci sentiamo soli, dall’altro lato dello specchio, e non possiamo permetterci di rimanervi bloccati.
Prima di uscirne, però, sarebbe bello essere ancora cullati dai sogni che vanno svanendo. Prima di diventare adulti senza via d’uscita, prima che il filo d’argento venga di nuovo sotterrato, prima che Roger Federer scompaia, ti chiedo, Roger, di lanciare in aria quel bambino, e poi di riprenderlo. Lancialo in alto, sempre più su, fino a quando comincerà a non vedere più le tue braccia, ad abituarsi all’addio. Lanciami ancora Roger, per il mio volo ad aliante, e infine fallo un’ultima volta, papà, e poi lasciami andare.