di Luca Filidei
Ci siamo. L’ultimo grande torneo della stagione sta infiammando il mondo del tennis. L’US Open Tennis Championships, più conosciuto semplicemente come US Open, sta illuminando il Queens, con il suo glamour inimitabile ma anche con la sua spiccata americanità, una specie di “sequel” di quella espressa dal Western & Southern Open appena concluso (trovate un approfondimento qui).
Del resto, se il Cincinnati Open rappresenta una parte fondamentale della storia di questo sport, l’US Open è l’insieme che contiene tutto, come – permettetemi questo paragone motoristico – la leggendaria Indy 500 per il campionato IndyCar Series. Chi vince questo torneo ottiene il passe-partout per accedere all’immaginario collettivo, rendere iconica la propria essenza, dalle virtù alle debolezze. E poi avere il privilegio (rarissimo) di entrare nella Storia, affiancandosi ai grandi nomi che oggi impreziosiscono l’ammirata Court of Champions: Steffi Graf, John McEnroe, Chris Evert, Rod Laver, Arthur Ashe, Billie Jean King… solo per citarne alcuni.
Un torneo iconico che comincia da un hamlet
Leggendario a dir poco verrebbe da dire. Ma quali sono le origini dell’US Open? O meglio, visto il fil rouge di questo focus, quali sono le infrastrutture sportive che lo hanno ospitato diventando un tutt’uno con la sua storia? Inutile scrivere che prima del USTA Billie Jean King National Tennis Center, il distretto sportivo in cui viene organizzato ininterrottamente dal 1978, ci sono stati altri impianti. E quindi eccoci qui ad iniziare un (breve) viaggio nel passato di questo torneo, per conoscere quei “parterre” che lo hanno reso così indimenticabile, unico, persino riconoscibile a livello glocale.
I primi passi dell’US Open, però, non sono una sorpresa, poiché iniziano nelle vicinanze di New York – no, non a Flushing Meadows –, ma pur sempre nell’infinito sprawl urbano della Grande Mela, che poi comprende anche la città di Purchase. Esatto, l’hamlet, la frazione della ben più nota Harrison, conosciuta per il memoriale dedicato all’aviatrice Amelia Earhart.
Dalla nascita della USTA all’èureka di Jim Dwight
È proprio qui che, nel maggio del 1881 (un anno particolare per il Paese, con l’alternanza di ben tre presidenti), viene siglato l’accordo tra un piccolo gruppo di persone riunite per fondare la United States National Lawn Tennis Association, quella che oggi viene chiamata USTA.
Tra di loro figurava anche James “Jim” Dwight, alias “Father of American Tennis”. Inserito nella Hall of Fame nel 1955, ha dominato il doppio agli US Nationals vincendo cinque edizioni dal 1882 al 1887. Il suo compagno era un certo Richard “Dick” Sears, non c’è bisogno di aggiungere altro. No, forse solo qualcosa. Perché è Dwight, nominato presidente nel 1882, a decidere insieme agli altri soci la prima sede dello US Open. In questo caso niente New York. Si va dritti in Rhode Island, dove ad aspettare i primi campioni di tennis c’è il Newport Casino.
Nell’Ocean State a ritmo di tennis
Raffinato. Di una bellezza mai ostentata. Anzi, persino introversa. Dotato di uno charme unico. È questo che caratterizza l’attuale sede dell’International Tennis Hall of Fame. Ci sono troppe storie da raccontare in un edificio così, a partire da chi decise di costruirlo, tale James Gordon Bennett, personaggio eccentrico quanto determinato, fondatore del New York Herald, il penny press che poi pubblicherà l’immagine simbolo Lunch atop a skyscraper.
Tuttavia, facciamo un passo indietro, riordiniamo le idee, perché ora il Newport Casino è una specie di museo attivo – tanto da essere il palcoscenico dell’Hall of Fame Open – ma prima, alla fine dell’Ottocento, quando circolavano ancora carrozze e strilloni, rappresentava un modello decisamente innovativo. Già, perché il “casino” non era la “casa da gioco” che conosciamo oggi, bensì una tipologia architettonica che riuniva spazi per trascorrere il tempo libero, dalla ristorazione allo sport, praticamente il moderno “country club”.
Nel 1880 ci troviamo nel bel mezzo di quella che Mark Twain definì la Gilded Age, un’epoca di eccessi alla Jay Gatsby per intenderci, o se volete affine alla ruggente Babylon dipinta da quel visionario che porta il nome di Damien Chazelle.
Un “Wimbledon” made in USA
Ad essere incaricato da James Bennett per il progetto è uno studio di architettura ancora poco conosciuto: McKim, Mead & White, che poi avrebbe firmato decine di edifici a Manhattan, tra cui il Madison Square Garden II, quello in cui si disputò il match Willard-Moran nel 1916.
Ma è in Rhode Island che quel terzetto trova l’ambito passaggio per il successo, disegnando un gioiello architettonico in un elegante stile Shingle, talmente ben disegnato da venire acclamato dalla critica di quel periodo. Sì, perché nel Newport Casino si trova un sapiente mix di conoscenze, dallo stile Queen Anne a quello coloniale, fino al design francese che McKim fece suo mentre frequentava la prestigiosa École des Beaux-Arts di Parigi: praticamente il connubio perfetto per replicare in America ciò che stava avvenendo dall’altra parte dell’oceano.
Wimbledon, almeno a livello architettonico, aveva trovato un suo “contender”. Ora mancava soltanto il torneo, l’U.S. National Championships. Che arrivò sui prati del Newport Casino appena un anno dopo.
Chi vinse il titolo del singolare? Quasi un’ovvietà: Dick Sears, ma questa, in fondo, è un’altra storia.
Nella seconda e ultima parte ci allontaniamo dal Rhode Island per trasferirci nello Stato di New York. Una sosta al West Side Tennis Club e poi via verso Flushing Meadows…
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