Cara Australia, cara Melbourne, sei stata il mio specchio e magari lo sarai ancora. Potrebbe essere questo l’incipit di una ipotetica lettera scritta da Rafa Nadal per ringraziare e salutare un Paese e in particolare una città che resteranno per sempre evidenziate nella mappa della vita tennistica dello spagnolo. Un addio? No. Un arrivederci? Nemmeno. Le certezze non sono mai state il punto forte di Rafa.
Indubbiamente il servizio in slice da sinistra, il dritto sventaglio e il passante in corsa rimarranno scolpiti nella storia di questo sport come i marchi di fabbrica di uno dei suoi campioni più grandi. Ormeggi sicuri a cui Nadal si è aggrappato centinaia di volte nei momenti cruciali delle sue partite. Ma qui non si parla di certezze tecniche. Se non fosse troppo impegnativo dal momento che si parla di sport, l’aggettivo giusto avrebbe potuto essere “esistenziali”.
Dear tennis, you allow us to dream
Rafa avrebbe potuto fare del suo 2024 un farewell tour, mutuandolo da Kobe Bryant e più in generale dalla tradizione degli sport americani e mettendo in piedi la prima edizione tennistica di questa modalità di ritirarsi. Avrebbe potuto, ma non lo ha fatto. Avrebbe significato imporsi dei paletti: avere, da un lato, finalmente delle certezze ma anche, dall’altro, chiudere la porta ai sogni, ai colpi di scena, alle sensazioni, ai moti d’orgoglio e agli imprevisti. Niente di tutto ciò sarebbe stato coerente con la carriera di Nadal.
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“Non posso annunciare niente perché non so cosa accadrà e come reagirà il mio corpo, ma voglio darmi un’opportunità – aveva detto a dicembre prima di tornare in campo a Brisbane – Se il mio fisico dovesse rispondere bene alle sollecitazioni, perché dovrei fermarmi? Non avrebbe senso”. E così, poche settimane fa Rafa ha lasciato l’Australia senza sapere se ci ritornerà ancora da giocatore. Chi lo aspettava a Melbourne per quello che sarebbe stato il suo diciannovesimo Australian Open non può non essere rimasto deluso, ma allo stesso tempo la (non) decisione di Nadal permetterà ai suoi tifosi di sognare l’ennesimo ritorno del loro idolo.
Dear Australia. Tra gioie e dolori
La città simbolo della carriera di Nadal è e sarà Parigi. Questo è fuori discussione. Difficilmente nella storia del tennis ci sarà un altro torneo così legato a un suo vincitore come il Roland Garros con il maiorchino (sebbene anche Djokovic e Federer abbiano i loro regni). Le 14 vittorie sulla terra parigina lo incoronano come il tennista più forte di sempre su quella superficie e gli conferiscono così un’aura di imbattibilità e regolarità. Inscalfibile, prevedibile, puntuale. Ma Nadal non è stato e non è solo questo. Per ricostruire una sua immagine a tutto tondo, utile soprattutto per i giovanissimi che hanno visto più partite di Alcaraz e Sinner che di Rafa e Roger, c’è bisogno di considerare anche e soprattutto il suo passato in Australia.
La prima volta di Nadal down under fu nel 2004. L’esordio nell’Happy Slam fu preceduto dalla sua prima finale ATP, raggiunta nella vicina ma non troppo Auckland. A Melbourne arrivarono due vittorie, la prima sul qualificato ceco Tabara. Poi al terzo turno la sconfitta con Hewitt, ancora (per poco) troppo forte per il diciassettenne Rafa. Venti anni dopo (!), il bilancio dello spagnolo all’Australian Open è di 77 vittorie e 16 sconfitte con due trionfi su sei finali disputate. Lo Slam che gli ha dato “meno”, al pari di Wimbledon.
Al di là dei freddi numeri, però, sono altri elementi e momenti del rapporto tra Rafa e Melbourne che fanno di quest’ultima uno specchio dell’uomo-giocatore Nadal e della sua carriera. A partire dalle battute d’arresto e dagli infortuni, più che compensate, però, da match e successi memorabili. Fanno parte della seconda categoria le vittorie su Verdasco e Federer del 2009. Dopo un 2008 a tratti dominante (con l’oro olimpico oltre alle affermazioni al Roland Garros e a Wimbledon – la prima), Nadal confermò una superiorità in quel momento estesa a tutte le superfici conquistando il primo Australian Open suo e della storia del tennis spagnolo, passando quasi nove ore e mezza in campo tra semi (che diventò in quel momento la partita più lunga nella storia del torneo) e finale.
Nel 2010 il problema al ginocchio, ripresentatosi dopo l’infortunio che gli aveva impedito di difendere il titolo a Wimbledon l’anno precedente, che costrinse Rafa al ritiro nel corso del quarto di finale con Murray. Il 2012 fu invece l’anno di un’altra sfida epica: l’indimenticabile finale con Djokovic durata 5 ore e 53 e vinta dal serbo. Un simbolo della loro stupenda rivalità e della supremazia di Nole in quel periodo. Dodici mesi dopo arrivò il secondo forfait (dopo quello del 2006 dovuto a un infortunio al piede) per colpa di un virus che ne ritardò il rientro in campo (che fu glorioso) dopo la rottura parziale del tendine rotuleo a metà della stagione precedente.
Del 2014, 2017 e 2019 sono le altre tre finali perse (rispettivamente contro Wawrinka, Federer – in un match di qualità sublime da ambo i lati – e Djokovic). Nel mezzo anche l’eliminazione al primo turno del 2016 contro Verdasco – l’unica all’esordio in uno Slam insieme a quella di tre anni prima a Wimbledon – e l’infortunio all’anca durante la sfida con Cilic (in cui era avanti di due set) nei quarti di finale del 2018. Una serie di segnali che sembravano indicare una subentrata idiosincrasia tra Nadal e l’Australian Open, apparentemente destinato a restare l’unico Slam vinto solo una volta da Rafa.
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A rafforzare questa sensazione ci pensarono poi le due sconfitte nei quarti di finale del 2020 e del 2021: prima con Thiem con tre tie-break su tre persi e poi con Tsitsipas, autore di una rimonta da 0-2. Poi, però, l’impensabile, persino per uno come lui che aveva già ampiamente mostrato in carriera le sue doti di resilienza e la sua capacità di tornare in campo dopo gravi infortuni più forte di prima. Il suo 2021 era sostanzialmente finito con una zoppia appena accennata ma comunque evidente, causata da un acutizzarsi della sindrome di Müller-Weiss che non gli aveva dato la possibilità di giocarsela fino in fondo nella semifinale del Roland Garros contro Djokovic. Erano seguiti cinque mesi di assenza e infiniti dubbi su quanto ancora Nadal avrebbe potuto chiedere al suo fisico per arricchire il suo palmares. Ancora una volta, nessuna certezza, in primis per lo stesso Rafa.
Lo spagnolo si presentò a Melbourne dopo aver contratto anche il Covid senza grandi aspettative. L’insolito ATP 250 di preparazione giocato sugli stessi campi dell’Happy Slam, vinto in finale contro Cressy, si trasformò in un’inattesa iniezione di fiducia che contribuì a un percorso straordinario nelle due settimane successive. La favola dell’ennesimo ritorno leggendario di Nadal, però, sembrava si stesse chiudendo senza happy ending. In finale Medvedev era infatti avanti 6-2 7-6 3-2 con tre palle break consecutive sul servizio di Rafa, a dir poco esausto. E, invece, ecco l’impensabile per l’appunto. “Cuando te digan que algo es imposible, piensa en Rafa” scrisse Marca in prima pagina l’indomani. Non c’è bisogno di traduzioni.
Così commento l’impresa Xavier Vidal-Folch su El País: “L’audacia terrena di Rafa suscita più entusiasmo ora, perché contrasta con la percezione della sua vulnerabilità fisica e la sua età”. Ed è proprio questa combinazione di grandezza e fragilità, costante della carriera dello spagnolo, che la storia di Nadal in Australia racconta. Una storia che potrebbe essere finita con l’infortunio muscolare patito nel match di secondo turno con McDonald di dodici mesi fa e con il forfait di quest’anno. Ma anche una storia che potrebbe riservare ancora qualche colpo di coda. Una storia stra-ordinaria e umana allo stesso tempo. E proprio per questo senza certezze, fino in fondo.