Lo abbiamo imparato a conoscere, ascoltando con piacere. Perché il Podcast di Andy Roddick, Served, non è il solito Podcast sul tennis o qualcosa che ascolti per il semplice motivo che spinge ognuno di noi ad ascoltare e leggere (quasi) tutto ciò che riguarda il tennis. Si chiama passione e per sua stessa natura bypassa concetti di leggibilità e apprezzabilità. Avulsi da questo però, il Podcast dell’americano è di sicuro uno dei più interessanti, vuoi perché chi parla conosce realmente l’argomento, creando, per chi ascolta, una sorta di totale immersione nell’ambiente tennis, vuoi per la precisione del racconto, dei tempi e della dialettica, tipica di altri mestieri. Terminata questa quanto mai doverosa introduzione, l’ultima della serie è probabilmente una delle più interessanti: un’intervista a mente e cuore aperta a Rafael Nadal, la prima dopo il suo ritiro. Tantissimi gli spunti interessanti, dal momento in cui il campione spagnolo si è reso conto che no, non si poteva andare avanti, al modo di adattarsi a tutte le superfici, al rapporto con Federer e Djokovic, alle nuove generazioni tennistiche. Un’intervista da non perdere che dice tanto dell’uomo e dell’atleta Nadal.
L’addio al tennis e la nuova vita: il racconto di un campione
“Quando ho detto basta al tennis, non pensavo di essere così tanto impegnato. Credevo di avere più tempo libero, ma la realtà mi ha fatto capire che è necessario riorganizzare la propria vita. Sono convinto che il primo anno sarà una fase di adattamento, un periodo per capire chi voglio essere in questa nuova parte della mia esistenza. La vita fuori dal Tour è completamente diversa: quando sei in giro per i tornei, sei sempre di corsa, anche nei rari giorni liberi. Ora, invece, il tempo assume un valore differente. Mi sto abituando a questa nuova dimensione, mi sento più in sintonia con quello che faccio. Ma come tutti i cambiamenti, serve tempo. Ogni giorno è un’opportunità per scoprire aspetti della mia vita che prima non avevo il tempo di approfondire”.
L’anno più difficile
“L’anno scorso è stato mentalmente durissimo, un percorso doloroso che mi ha costretto ad accettare una realtà difficile da digerire. Ho attraversato una montagna di emozioni e sensazioni, difficili perfino da esprimere a parole. Nel 2022 avevo vinto i primi due Slam dell’anno, poi è arrivato l’infortunio agli addominali a Wimbledon, proprio prima della semifinale, e quello stesso problema ha condizionato anche la mia partecipazione agli US Open”.
“Poi la mia vita è cambiata: sono diventato padre. Ho cercato di riorganizzarmi, di ripartire con la mentalità giusta e mi sono detto: “Ok, prepariamo il 2023 nel migliore dei modi.” Ma in Australia, contro Mackenzie McDonald, ho subito un grave infortunio: la lesione all’ileopsoas sinistro. Da lì è iniziato tutto. In teoria, era un problema da cui si può guarire, così ho deciso di fermarmi qualche settimana prima di tornare ad allenarmi duramente. Ma il dolore non passava, e a quel punto ci siamo detti: “Ok, operiamoci.” Ho consultato diversi medici e ho capito che quella era l’unica possibilità per tornare a giocare”.
“Sapevo che sarebbe stata una sfida, ma ero pronto ad affrontarla: fino a pochi mesi prima ero ancora un giocatore di altissimo livello. L’operazione è andata più o meno bene, ma è stato necessario rimuovere una parte importante dell’ileopsoas a causa di un vecchio infortunio. Da quel momento sono iniziati cinque-sei mesi di duro lavoro per cercare di rientrare. Il problema, però, non era tanto il tennis: colpivo ancora bene la palla, riuscivo a fare quello che volevo con la racchetta. Ma fisicamente mi sentivo limitato”.
“Ecco perché quei mesi sono stati così difficili: sentivo di essere ancora competitivo, ma non riuscivo mai a raggiungere il livello desiderato. Non ero in grado di muovermi come volevo, come ero abituato a fare. Poi è arrivato il momento della resa: dopo le Olimpiadi sono tornato a casa e mi sono detto: “Basta, è finita.” Ho capito che non sarei mai più tornato al mio livello e, a quel punto, continuare non aveva più senso. L’ho accettato: la mia carriera era arrivata al termine”.
La paura della limitazione fisica
“Durante la mia carriera sono sempre riuscito a tornare in campo ad alti livelli, senza paura di farmi male di nuovo. Dopo l’ultimo infortunio, però, la sensazione era diversa. Sapevo che le limitazioni sarebbero state permanenti e mi sono chiesto: come potrò mai battere tennisti al massimo della forma se io non lo sono più? Questa consapevolezza è stata il punto di svolta nella mia decisione di ritirarmi. Ho sempre creduto nel sacrificio e nel duro lavoro, ma in questo caso il mio corpo non rispondeva più come prima. È stato un colpo duro da accettare, ma necessario per voltare pagina e iniziare un nuovo capitolo della mia vita”.
L’emozione della torcia olimpica
“Non avrò mai abbastanza parole di ringraziamento per il comitato organizzatore delle Olimpiadi di Parigi. Essere uno degli ultimi tedofori, ricevendo la torcia da Zidane di fronte alla Torre Eiffel, è stato uno dei momenti più emozionanti della mia carriera. Ho scoperto tutto solo cinque minuti prima. Quando mi hanno detto “è il momento”, sono scoppiato a piangere per l’emozione. In quel momento ho sentito tutta la mia carriera scorrere davanti ai miei occhi. Parigi ha sempre avuto un posto speciale nel mio cuore, ed essere parte di un evento così significativo è stato un onore indescrivibile. È stato un riconoscimento non solo per ciò che ho fatto sul campo, ma anche per il legame speciale che ho costruito con il pubblico e la città stessa”.
La crescita e l’evoluzione del gioco
“Sono cresciuto in una famiglia di sportivi: mio zio materno è stato un giocatore della nazionale spagnola di calcio con la quale ha disputato tre mondiali, mio zio Toni che è stato il mio coach per la maggior parte della mia vita. La determinazione a migliorare è stata la mia costante. Quando ho vinto il mio primo torneo sul duro, ho fatto capire al mondo che non ero solo un giocatore da terra battuta. Ho amato l’erba più di quanto si possa immaginare. La mia prima finale sull’erba, a Wimbledon, è stata nel 2006. Mi ci sono voluti cinque anni per sentirmi davvero a mio agio su quella superficie, ma il mio gioco si adattava bene. Dopo la finale del 2007, ho vinto nel 2008, poi nel 2009 non ho potuto partecipare, ma sono tornato a trionfare nel 2010 e ho disputato un’altra finale nel 2011. Escludendo il 2009, ho raggiunto cinque finali consecutive”.
“Non ho mai dimenticato come si giocasse sull’erba, ma il mio fisico, in particolare le ginocchia, non mi permettevano di competere con continuità su una superficie così esigente dal punto di vista atletico. È stato molto frustrante, perché sapevo di avere le mie chance e ho sempre preferito affrontare Novak sull’erba piuttosto che sul cemento”.
“Quando finivo la stagione sulla terra rossa, il giorno dopo cercavo subito un campo in erba per allenarmi, perché per me significava resettare e iniziare un nuovo capitolo. Giocare sull’erba richiede di ripartire da zero: bisogna adattare il movimento, il servizio, il modo di colpire la palla. È una superficie che non lascia spazio alle mezze misure: se hai un buon servizio, puoi costruire le tue vittorie. Nel mio caso, però, dovevo puntare sulla solidità da fondo campo, perché il mio servizio sull’erba non era il massimo. Non puoi permetterti di essere speculativo, alternando fasi difensive e offensive: sull’erba devi attaccare sempre”.
Le grandi rivalità della sua carriera: Roger e Novak
“Giocare con Roger o Novak era un’esperienza completamente diversa. Nel corso della mia carriera ho capito che la rivalità con Roger era sicuramente più affascinante per il pubblico rispetto a quella con Novak, nonostante i nostri 60 incontri. Questo perché la strategia con Roger era sempre chiara: puntare costantemente sul suo rovescio, insistere su quel lato fino a farlo vacillare. Quando decidevo di giocare un lungo linea, lo facevo per due soli motivi: o per cercare il vincente o per spostarlo e aprirmi più campo. Lui, invece, cercava sempre di essere il più aggressivo possibile con il suo dritto. Ogni nostro incontro era una partita a scacchi, dove tutti sapevano esattamente quali sarebbero state le strategie di entrambi”.
“Nel finale delle nostre carriere, lui è stato sicuramente superiore a me. Nel 2017, sul veloce, è stato il giocatore più forte che abbia mai affrontato su quella superficie: aggressivo, rapido e con un servizio praticamente illeggibile. All’inizio, però, commetteva sempre lo stesso errore: giocava con il suo rovescio alto sul mio dritto, permettendomi così di attaccare con continuità”.
“Con Novak, invece, era tutta un’altra storia. Certo, c’era una strategia da seguire, ma per batterlo l’unica soluzione era giocare bene, per tanto, tantissimo tempo. Con lui la chiave era mantenere il gioco al centro, evitando di dargli troppo angolo. In termini di controllo della palla, è stato il miglior giocatore con cui abbia mai giocato”.
Restituire qualcosa
“Le persone fortunate come me hanno il dovere morale di restituire qualcosa di quello che hanno avuto per aiutare quelli che non sono stati fortunati come noi. Con la nostra fondazione vogliamo dare un futuro ai bambini che sono in condizioni difficili in ambienti difficili, cerchiamo di mostrargli un’altra realtà con un’altra prospettiva e dargli un’opportunità che nessuno gli darebbe. Vogliamo essere dirompenti nelle loro vite e avere la determinazione di creare degli spazi sicuri dovei bambini possono andare lì e dimenticarsi attraverso lo sport e i maestri la loro realtà”.
Il futuro del tennis
“Abbiamo dimostrato (lui, Federer e Djokovic n.d.c.) che si può essere competitivi e mantenere un ottimo rapporto, anche in una rivalità durissima, senza mai perdere la propria umanità. Questo valore lo abbiamo trasmesso anche alle nuove generazioni, come Carlos e Jannik: rispettare le persone e i propri avversari, sempre.
“Carlos è un ragazzo d’oro, cresciuto in una famiglia che gli ha insegnato questi principi. Anche Jannik è un ragazzo straordinario: il modo in cui ha affrontato tutto ciò che ha vissuto nell’ultimo anno è stato semplicemente incredibile. Le nuove generazioni aiuteranno il nostro sport a crescere e a coinvolgere sempre più tifosi”.