Il circuito Challenger è un cantastorie. Racconta episodi di tutti i generi: adrenalinici, battaglieri, folli. Ma anche storici o, direttamente dalla sponda opposta, pure alcuni un po’ monotoni. Sta di fatto che, vuoi o non vuoi, è la gavetta di tutti i giocatori che sono poi riusciti a vivere di tennis nell’ATP Tour. C’è però anche chi è riuscito a vedere il Paradiso tennistico e, tutt’un tratto, in un battito di palpebre, è stato risucchiato e declassato nel purgatorio. Ancora una volta. Fino a questo punto potrebbe essere la storia di molti tennisti, ma ce n’è uno che da quel limbo si è poi risollevato fino a toccare di nuovo l’empireo. Stiamo parlando, ovviamente, di Andre Agassi.
Il 54enne di Las Vegas, che a settembre ricoprirà per la prima volta il ruolo di capitano del Team World nella Laver Cup di San Francisco, ha rilasciato alcune dichiarazioni interessanti in una sessione di domande-risposte in occasione della sua presenza al Challenger 175 di Phoenix, dove, tra gli altri, ha incontrato il poi vincitore del torneo Joao Fonseca. “Sono arrivato al numero uno al mondo e la gente deve aver pensato che stessi vivendo un sogno, ma probabilmente ero la persona più disconnessa e infelice sotto molti aspetti”, ha rivelato l’otto volte campione Slam, poco dopo sprofondato in quel circuito Challenger che tutti credevano si fosse lasciato alle spalle. E invece… “Ho trascorso due anni scendendo attorno alla 140esima posizione in classifica. Tutti nel mondo sono rimasti sorpresi, tranne me”.
Rimboccatosi le maniche, dopo la medaglia d’oro olimpica del 1996 ha poi ricominciato a scalare la classifica e lo ha fatto, in prima battuta, partendo proprio dal circuito minore. “Quando ho trovato la mia ragione per giocare, ho dovuto ripartire da capo. Era troppo importante per me e la gente pensava che fossi Bruce Springsteen che giocava al bar locale o qualcosa del genere. Ma per me è stata la volta in cui mi sono sentito più connesso al tennis, perché finalmente avevo la mia ragione per tornare là fuori, mentre giocavo con ragazzi che probabilmente non avrebbero mai sognato di incontrarmi, figuriamoci di battermi. Alla fine, ero dove dovevo essere. È stato così bello”.
Bello per lui, molto meno per chi ha dovuto incontrarlo verrebbe da dire. Anche perché sì, il circuito Challenger sa narrare storie avvincenti di ogni tipo, ma allo stesso tempo con questi racconti convivono anche altre vite di decine e decine di giocatori che, non riuscendo a fare il salto di qualità definitivo verso il circuito maggiore, stagnano in questa pozzanghera tennistica rischiosa, poco remunerativa e psicologicamente infernale. “Ciò che è tipicamente difficile del livello Challenger è che questi ragazzi stanno lottando per arrivare a un posto in cui possono contare sulla loro vita, contare sul loro programma, contare sulla partecipazione ai tornei, contare sul pagamento delle bollette, contare sul cambio della prenotazione del loro aereo perché gli costerà caro se non lo fanno. Sono là fuori a lottare per il sostentamento reciproco. È davvero crudo e davvero onesto”, l’analisi dell’ex numero 1 al mondo, tornato poi in vetta alla classifica nel 1999. Peraltro, in una stagione in seguito pure conclusa nella poltrona più comoda del globo, conquistata con ambizione, sudore e fatica, elementi fondanti anche del circuito Challenger. E Andre pare non esserselo dimenticato.