È nel miglior momento della carriera, Martin Klizan, e ora vuole riprendere il discorso interrotto più di due anni fa. Tra Madrid, Roma e Parigi difende 90 punti: è lui la mina vagante delle retrovie?
Nel 2006, ossia quasi nove anni fa, il Roland Garros incoronava due campioni junior con delle storie piuttosto differenti: Martin Klizan tra i ragazzi e Agnieszka Radwanska tra le ragazze. Se la vittoria della polacca segnò la fine della sua carriera tra le junior e non giunse inaspettata, quella di Klizan fu invece una sorpresa. Lo slovacco vinse quel titolo triturando tutti i suoi avversari tranne uno, il primo. La wild-card di casa, Guillaume Rufin, venne battuta con un punteggio piuttosto “klizaniano”: 2-6 7-6(4) 7-5. Di lì in poi, però, fu un trionfo: 6-2 7-5 alla testa di serie numero 7, l’indiano Sanam Singh, 6-3 6-1 alla testa di serie numero 11, lo spagnolo Albert Ramos, 6-1 6-1 a Pedro Sousa, 6-3 6-0 alla testa di serie numero 8, Petru-Alexandru Luncanu e 6-3 6-1 al canadese Philip Bester, stracciato nella finale. In pratica, dopo aver rischiato l’eliminazione al primo turno, ha concesso due game per set. Un inciampo che può costargli il torneo e poi partite a limite della perfezione: questo vizietto Klizan se lo porterà anche tra i grandi.
Il Klizan venticinquenne che da lunedì raggiungerà il suo best ranking – al numero 24 – dopo la semifinale di Barcellona non è cambiato molto dal 2006. Da professionista ha giocato tre finali a livello ATP e le ha vinte tutte abbastanza nettamente. Niente mezze misure: a San Pietroburgo, sede del suo primo titolo tre anni fa, giocò una partita di tre ore e quarantanove minuti per conquistare la sua prima finale in carriera e il giorno dopo batté Fabio Fognini in un’ora e nove minuti. Un anno e mezzo dopo, a Monaco, si è ripetuto ancora contro Fognini – stavolta cedendogli un set ma lasciandogli tre game tra secondo e terzo set – ed è tornato ad alzare un trofeo dopo essere uscito dai primi cento del mondo. E, come a San Pietroburgo, anche a Monaco ha incontrato un altro tennista talismano, Mikhail Youzhny, battuto ancora una volta all’ultimo sospiro: 6-7 6-2 7-6.
A Barcellona il suo percorso fino alle semifinali è stato immacolato, se togliamo il primo set perso all’esordio con Juán Monaco. Poi l’argentino ha raccolto tre game e ha fatto strada ad un Klizan che ha lasciato poche chance pure a Victor Estrella Burgos e Tommy Robredo. Contro Kei Nishikori, però, il suo tennis aggressivo si è trovato senza risposte. Meno di un anno fa il giapponese usciva incerottato al primo turno del Roland Garros di fronte ad un Klizan ispiratissimo. Al Conde de Godó però la musica è cambiata. Ma Klizan non è un tennista che si perde d’animo. Dopo essersi fatto conoscere a Parigi, lo slovacco perse otto mesi di preparazione per un infortunio al polso. Se hai diciotto anni, otto mesi pesano ancora di più. Bisogna aspettare quindi il 2012, quando Klizan ha ormai ventitré anni, perché lo slovacco si faccia conoscere anche da quelli che non seguono il tennis junior. Il 2012 è l’anno magico di Klizan, che vince pure il titolo di “Newcomer of the year”: vince quatto challenger, batte il primo top-10 (Jo-Wilfried Tsonga, agli US Open) e a New York arriva fino agli ottavi, impresa che non gli è più ricapitata; poi vince San Pietroburgo e riporta un titolo in Slovacchia dopo otto anni, quando Hrbaty vinse a Marsiglia nel 2004. Fa purtroppo parte della vita di questo diabolico sport il fatto che Klizan abbia raggiunto il suo best ranking, al numero 26, nell’anno peggiore della carriera, il 2013.
L’anno successivo è l’anno del ritorno alla realtà. Il poliglotta che maneggia sei lingue non riesce più a parlare la lingua universale del tennis. C’entra la separazione con Karol Kucera, eroe di Coppa Davis nel 2005 e capace di salire fino al numero 6 del mondo. C’entrano anche le aspettative che questo mancino che serve come McEnroe non riesce più a rispettare (“Dopo la vittoria contro Tsonga tutti si aspettavano grandi cose da me. Ma una cosa è arrivare ad un certo livello, un conto è manternerlo”). E c’entra anche un carattere decisamente poco morbido. Quel carattere che lo ha portato ad attaccare nientemeno che Miroslav Mecir, capitano del team di Coppa Davis: “Nella nostra squadra ci sono elementi che non hanno il senso della responsabilità. Per loro la Davis non è un impegno serio. E Mecir è del tutto indifferente a quanto succede. Ci vorrebbe un sergente di ferro, uno come Hrbaty”. Hrbaty però lavora con la federazione turca. Magari non è colpa di Mecir, fatto sta che a settembre scorso la Slovacchia ha perso per 5-0 a Chicago contro gli Stati Uniti. Mentre i cugini della Repubblica Ceca collezionano Coppa Davis, la Slovacchia è costretta a giocarsela con la Romania per avere la chance di giocare di nuovo il play-off e tornare nel World Group dopo dieci anni. Il 2013 di Klizan termina con un bilancio in cui le sconfitte doppiano le vittorie e con l’uscita dai primi cento del mondo. La fotografia che spiega la sua stagione viene scattata, come l’anno prima, a New York. Contro l’ex prodigio Donald Young, Klizan fa appena due game in ottanta minuti e saluta nella maniera peggiore il torneo che l’aveva lanciato.
Non basta così poco, però, per abbattere Martin Klizan. Messo a posto un fisico che scricchiola un po’ troppo e trovato un nuovo allenatore dopo Kucera, Klizan ricomincia a ingranare. Serve un po’ di fortuna, a dire il vero. Ma lo slovacco, dopo tutto, era in debito: perde nelle qualificazioni degli Australian Open, viene ripescato e arriva fino al terzo turno dove perde il derby con il lucky loser che c’è in ognuno di noi, Stephane Robert. Ma è a Monaco di Baviera che Klizan ritorna definitivamente se stesso. E stavolta non c’entra la fortuna, ma una buona dose di coraggio. Al secondo turno delle qualificazioni sopravvive ad un tennista non irresistibile, Martin Fischer. Poi un’altra battaglia vinta con Youzhny e alla fine Fabio Fognini, che si fa rimontare dopo aver vinto nettamente il primo set. Cancellati gli spaventi, cancellato il mal di stomaco della sera prima, cancellate le titubanze, Martin Klizan vince il secondo torneo della carriera sfoggiando un tennis sempre più convincente.
A Pechino, qualche mese dopo, Klizan mescola ancora confusione e trionfo, ma stavolta non celebra fino in fondo. Deve giocare le qualificazioni e per poco esce con un tennista che a malapena sta nei primi mille. Poi però vince chissà come, si qualifica e ai quarti batte Rafael Nadal recuperando un set e un break di svantaggio. Ormai non è più una sorpresa: Klizan, per dare il meglio, deve scottarsi. Ama giocare con il fuoco, anche se il nuovo allenatore, Martin Damm, gli sta insegnando a raffreddare i bollori e di lui ha detto: “Se qualcuno dice che è bianco, lui insiste che è nero”. Nella tavolozza del suo tennis non esistono colori mescolati. Damm, però, si sta sforzando di trasmettergli un atteggiamento più paziente e di insegnargli che esiste anche il grigio, specie sulla terra rossa. E poi lo slovacco ha dovuto smettere con il suo hobby preferito: spaccare le racchette. Un po’ perché i modelli nuovi non gli piacevano e avendone mantenuti solo tre del tipo che preferisce, ha dovuto preservare gelosamente le racchette rimaste. Un po’ perché Damm sembra essere la persona giusta per tenere nei binari giusti il treno Klizan. La prossima stazione è Madrid, poi Roma e Parigi. In Spagna e in Italia non ha punti da difendere dunque non potrà che far meglio, nello Slam parigino difende un terzo turno. Chi si scansa?