A cura di Davide Uccella
Djokovic: finale senza giocare, Hingis: finale da incorniciare (Vincenzo Martucci, La Gazzetta dello Sport, 29-03-2014)
Fu vera gloria? Rinunciando per un problema inguinale alle semifinali di Miami contro Novak Djokovic (già aiutato da un fortunatissimo tabellone), il giapponese Kei Nishikori svicola dal primo-vero test e lascia dubbi sul suo cammino nel mega-torneo sul cemento della Florida. L’allievo di Michael Chang s’è infatti avvantaggiato del suicidio di David Ferrer (che ha mancato 4 match point nella maratona di 3 ore di martedì) e poi dal harakiri di Roger Federer, mercoledì (che è stato avanti un set e due volte di un break, commettendo 21 errori gratuiti). Così, il giapponese di scuola Bollettieri, proprio in Florida, è arrivato alla seconda semifinale Masters 1000 (dopo Shanghai 2011), diventando il primo asiatico nell’ èlite a Miami dopo il thailandese Para-dorn Srichaphan nel 2003, il primo over 20 della classifica alla tavola dei grandi dopo Juan Monaco (battuto, nel 2012. da Djokovic).
Solidità Sull’asse Federer- Masters 1000, la 64a Atp. Numeri importanti ad appena 26 anni. Djokovic, l’allievo di Michael Chang che, evidentemente, nel caldo umido della Florida, ha fatto pesare la freschezza dei 24 anni, ha ricevuto i complimenti di RogerExpress. Deluso dal proprio servizio («Non trovavo il ritmo, colpa anche della temperatura che cambia tanto dal giorno alla sera»), e prodigo di complimenti per il giapponese che l’ha battuto per la seconda volta di fila, dopo Madrid: «E’ stato solido, sicuramente il più solido nel secondo e nel terzo set. Quando ha risposto benissimo. Ha un’ottima tecnica, soprattutto col rovescio, un colpo molto semplice, sul quale trova molto bene il timing, mentre il dritto a volte è più lento. Eppoi si muove velocemente e ha lavorato molto sul servizio. Lo vedremo presto fra i primi 10 del mondo».
Casa Da parte sua, Djokovic, che ha trovato sulla sua strada Chardy, Florian Mayer, Robre-do e mezzo Murray, s’avvantaggia ora della rinuncia di Nishikori, col quale è 1-1 nei testa a testa, e ha perso indoor a Basilea nel 2001. Ma sul cemento di Miami è di casa: domani ci gioca infatti la quinta finale (vittoria 2007, 2011 e 2012, sconfitta 2009), la 28a Masters 1000, la 64a At. Numeri importanti ad appena 26 anni.
Conferma Intanto, fra le donne, ad ennesima conferma che, in doppio, due buone singola-riste battono spesso e volentieri due specialiste, Martina Hingis e Sabine Lisicki, dopo il col-paccio d’acchito contro le ceche Hlavackova e Safarova, e i 7 match point salvati nei quarti contro Medina Garrigues e Shvedova, superano le affiatate Cara Black e Sania Mirza e si qualificano alla finale, da wild card, cioé da invitate dagli organizzatori non avendo classifica per entrare in tabellone. Certo non si pub parlare di sorpresa per l’ex 1 del mondo di singolare e doppio, la 33enne Hingis, che gioca la finale numero 52 di doppio, la prima dal ritorno alle gare l’anno scorso, con l’ultimo successo datato Doha 2007 (con Kirilenko). Il tocco della slovacca naturalizzata svizzera sposato alla potenza della Lisicki, finalista a luglio a Wimbledon, sono un cocktail micidiale.
L’eterno ritorno di Martina Hingis (Piero Valesio, Tuttosport, 29-03-2014)
NOLE Djokovic arriva alla finale di Miami nella migliore condizione possibile visto che non ha dovuto spendere nemmeno un grammo delle sue preziose energie per battere Kei Nishikori. Il giapponese si è ritirato dalla semifinale prima di iniziare a giocarla a œu-sa del riacutizzarsi di una pubalgia che si è verificato dopo il match in cui ha battuto Fbderer in rimonta. Noie così tenterà di bissare il successo di Indian Wells fresca come una rosa Ma il caso vuole che trovi Nadal altrettanto fiasco a causa del ritiro di Berdych per gastroenterite. Detto questo però occupiamoci del doppio femminile e non già perché in finale siano arrivate le nostre Chi-qui’s che invece attraversano (ognuna per conto proprio e pure in coppia) il momento più difficile degli ultimi anni della loro fulgida carriera. Ma perché nell’atto finale è approdata la strana coppia formata da Sabine Cimeli (avversaria di Marion Bartoli nella finale dell’anno scarso a Wimbledon) e Marina Hingis. Proprio quella Hingis che della Lisicki si occupa nel ruolo ch coach per la sua attività in singolare (non da molto e bisognerà vedere quanto durerà) e die con la sua protetta si era già esibita anche sul cement californiano. Si pub sostenere che Martina sia vittima di quella che fino ad un paio di mesi fa, prima che il tedesco incorresse nel pazzesco incidente di Meribel, si poteva definire la sindrome di Schumacher, ovvero l’assoluta incapacità di staccarsi dal mondo sportivo ne) quale si è sempre vissuti e dal quale, oltre che stress a ansia, si attingeva ancore adrenalina? Si può, forse si deve. E vero che viviamo in un momento in cui l’usato sicuro va di gran moda (Becker, Edberg, Chang, Ivaniaevic), almeno quando si deve scegliere un coach Ma la storia della Hingis ha Dolori ancora diversi. Che la svizzera (due volte beccata in flagranza di doping) non sappia separarsi dal tennis pur avendo tentato più volte di staccarsene in via definitiva, è certo. Casi amie è sicuro che non si sia inventata coach da uh giorno all’altro ma si sia attaccata al carrozzone attualmente più glamour al mondo, l Accademia francese di Patrick Mourato gin, colui che sta dietro alle fortune recenti di Serena Williams. Ma è diflìdle sfuggine alla sensazione che per Martina il coaching tennistico sia pure un mezzo per conquistarsi un posto sulla scena. Deve ovviamente dimostrare qualcosa in quella veste: l’anno scorso nei pressi del Roland Garros ha seguito la Pavl uchenkava ma quell’avventura non ha avuto seguito. Ora è con la Lisicki che da Wimbledon non ha più visto La luce: ma intanto ci gioca al fianco in doppio, vince qualche partita e magari vende qualche capo in più della sua linea di abbigliamento. Passione incontrollabile o autopromozione? Chissà.
Intervista ad Andy Murray – Vide ‘o Murray quant’è bello (Vincenzo Martucci, Sportweek, 29-03-2014)
La Gran Bretagna ha rialzato la testa anche in coppa Davis sempre grazie al suo fenomeno, scozzese, Andy Murray, campione olimpico (a Wimbledon) e degli Us Open nel 2012, e poi anche dello Slam di Wimbledon 2013, con tre imprese che valgono l’immortalità tennistica. L’ultimo colpaccio, in nazionale, a fine gennaio 2014, è ugualmente eclatante, addirittura negli Stati Uniti, sulla terra rossa, marcando una rivincita che mancava dal 1935 e la promozione ai quarti della gara a squadre più famosa per la prima volta dal 1986.Ovviamente, Andy, che ha portato i due punti in singolare, è stato importantissimo, ma il suo sforzo sarebbe stato vano senza l’impresa di Ward contro Querrey. Impresa più difficile, sulla carta, contro il numero uno italiano, Fabio Fognini, il 4-6 aprile, sulla terra rossa classica, e quindi più lenta di quella americana. Dove è probabile che Murray sarà costretto a giocare anche il doppio, con evidente dispendio di energie e rischio infortunio. Infatti, a metà settembre, per superare i fratellini di Marin Cilic nei playoff-promozione sulla terra rossa di Croazia, ha peggiorato il problema alla schiena, si è dovuto operare ed è tornato alle gare solo a gennaio, a Doha. E ora è sicuramente più vulnerabile senza coach Ivan Lendl che l’ha lasciato per dedicarsi alla propria scuola e al circuito Champions Atp Tour.
Murray, che cosa rappresenta per lei la coppa Davis? «Mi è sempre piaciuto giocare per la squadra. La Coppa costruisce il carattere ed è molto diversa perché giochi per il tuo Paese, hai motivazioni extra».
La Davis ha tante variabili: contro l’Italia che cosa la preoccupa di più? «Il fattore campo è sempre un vantaggio. Gli italiani sono più adatti alla terra rossa, quindi la superficie farà la differenza. Almeno in partenza. Poi sono una squadra forte e per noi sarà una sfida difficile, ho già giocato in Italia, la folla sarà importante. Ma anche noi avremo i nostri sostenitori, spero numerosi. Sarà una sfida intensa, non solo come tennis. Una bella lotta e un test caratteriale per tutti».
Italiani, bravi tennisti? «Sembra proprio che stiano facendo bene. Fabio è in gran forma. Siamo tutti più o meno coetanei, frequentiamo il Tour da un po’ e siamo tutti buoni amici».
Lei è nove giorni più giovane di Fognini, che ricorda di lui da juniores? «Ha sempre avuto tanto talento. Lo conosco dai 12 anni, è molto bravo e veloce, copre tutto il campo. Gioca con il cuore e mostra sempre tante emozioni, un po’ come me, direi».
Fognini vale i primi dieci del mondo? «Certo. Sulla terra poi gioca ancora meglio, contro di lui mi aspetto un match molto duro. Speriamo che domenica sera sia io quello che sorride, così dopo le partite potrò gustarmi ancor di più la trasferta a Napoli e la sua compagnia».
Che cosa ricorda di quel vostro match sulla terra di Montecarlo 2009? «Che siamo stati vicinissimi dall’inizio alla fine e che il tie-break fu molto combattuto, lo vinsi solo 13-11. Abbiamo sempre fatto grandi match, tutti e due possiamo giocare bene in difesa e quindi tendiamo a fare match lunghi».
Lei ha un gioco completo e, da giovane, si allenò sulla terra di Barcellona. Perché allora su questa superficie non ha mai vinto un torneo? «Il tennis sulla terra vuol dire costruire punti, il che significa tanta pazienza, capacità e condizione atletica. Fisicamente, devi essere incredibilmente a posto per le richieste della terra, i punti sono in genere più lunghi e ci sono più scambi. Crescendo, ho giocato raramente sulla terra, Barcellona è stata un’eccezione. Io tendo a passare la maggior parte della stagione sui campi duri, ma visto che cerco continuamente di affinare tutte le aree del mio gioco, migliorare i risultati sulla terra è una delle priorità».
Nel 2011, però, giocò gran bei match sulla terra contro Nadal e Djokovic. «Prima di operarmi alla schiena a ottobre, mi sono portato dietro l’infortunio per 18 mesi. Per questo l’anno scorso ho dovuto rinunciare al Roland Garros, quelle contorsioni mi sollecitavano troppo la schiena. Purtroppo la terra rossa è una delle superfici più dure e quei movimenti hanno aggravato il mio problema. Non raggiungendo mai la miglior condizione fisica, nelle ultime due stagioni non ho potuto rendere al meglio».
Sulla terra, quale suo colpo rende meno del solito? «Dipende dal campo, ma più spesso è il servizio. Devi stare attento all’effetto che ci metti per evitare che l’avversario attacchi la palla con più anticipo».
Come sarà la pressione di Napoli rispetto a quelle precedenti alle sue grandi vittorie del 2012 e 2013? «Per me non è tanto una questione di pressione che mi arriva dall’esterno, ma di quella che mi metto da solo. È stato bello avere il pubblico britannico dietro di me, eravamo alla disperata ricerca di un altro campione in uno Slam, ho usato quella pressione in modo positivo e, fortunatamente, ne sono venuto fuori. Ovviamente è stato un peso pesante da portare sulle spalle. E lì ho scoperto di essere in grado di giocare, senza preoccuparmi».
Dopo quella fantastica tripletta oro olimpico-Us Open-Wimbledon, ha esaurito i sogni? «Sono stati 18 mesi incredibili, anche se il Tour ti forza a tenere i piedi sempre per terra. Il calendario è uno dei più fitti dello sport, ti puoi permettere solo pochi giorni per festeggiare, poi devi tornare alla routine. Comunque, io cerco sempre di vincere tutti i tornei e, per riuscirci, è importante esser sempre nelle migliori condizioni. Così, sono arrivato davvero vicino a vincere, in Australia e, ora speriamo, anche contro l’Italia…».
A proposito dell’Italia. Ha appena vinto l’Oscar per La Grande Bellezza, che ne pensa del nostro Paese? «L’Italia è grande, cultura e cibo sono completamente diversi da qualsiasi altro posto visiti nel Tour. Sono fortunato a passare almeno dieci giorni l’anno a Roma per il torneo Atp: ci sono tanti aspetti da cogliere e tante cose da vedere e da fare (e ancora mi manca una partita di calcio all’Olimpico…). Proprio Roma è la città dove potrei stare per la sua atmosfera, ma sono stato sempre intrigato da Venezia che credo sia straordinaria. Come tifoso di calcio, invece, vorrei visitare Milano e magari vedermi Milan-Inter».
Italiani brava gente? «Sembra proprio che avete una bella idea della vita, siete appassionati e sempre amichevoli. Avete anche un certo stile, vi presentate sempre molto bene. Non vedo l’ora di saggiare la vostra passione a Napoli, dove mi aspetto match tirati, e divertenti. Non sono mai stato in quella città, ma adorando il calcio so un po’ della città perché Maradona ci giocava. Oggi c’è una squadra discreta, sembra che Benitez abbia fatto un ottimo lavoro».
Intervista a Paolo Lorenzi – Profumo di Davis per Lorenzi (Alessandro Nizegorodcew, Il Tempo, 29-03-2014)
Nato a Roma ma senese d’adozione, Paolo Lorenzi è uno dei quattro azzurri convocati perla sfida di Coppa Davis contro la Gran Bretagna (Napoli, 4-6 aprile). L’azzurro, insieme a Fognini, Seppi e Bolelli, avrà il compito di riportare l’Italia in semifinale dopo 16 anni. Finalista poche settimane fa nel torneo Atp di San Paolo, Lorenzi è attualmente al numero 96 della classifica Atp.
La stagione è iniziata nel migliore dei modi grazie alla tua prima finale Atp. «A San Paolo ho disputato un torneo fantastico, vivendo emozioni fortissime e sfiorando il successo finale. Le condizioni di gioco erano più uniche che rare per il circuito, perché il torneo si disputava in altura su un campo in terra battuta indoor. Ho battuto inoltre due ex top-ten come Juan Monaco e Tommy Haas».
Poi è arrivato un infortunio al polpaccio… «La vita del tennista è un po’ frenetica. Dopo la conferenza stampa a San Paolo sono dovuto correre all’aeroporto: 12 ore e mezzo di volo per arrivare a Los Angeles e 3 di macchina per raggiungere Indian Wells. Nei giorni successivi ho fatto fatica a riprendermi giocando alcuni match sotto tono. Alla fine dell’incontro con Cilic ho avvertito il dolore al polpaccio, per questo sono rientrato in Italia per curarmi al meglio in vista della Davis».
Sei al numero 96 Atp. Quali gli obiettivi per il2014? «Raggiungere e superare il numero 49 del mondo, mia migliore classifica di sempre, magari vincendo un torneo Atp».
Si avvicina la sfida di Coppa Davis contro la Gran Bretagna, con la possibilità di tornare in semifinale dopo 16 anni. Quali sono le tue sensazioni? «Abbiamo buone possibilità. Lo scorso anno nei quarti di finale giocammo in Canada in situazioni complicate con campi e palle molto veloci. Questa volta, contro gli inglesi, si giocherà sulla nostra amata terra e, in più, in questo momento Fognini e Murray sul «rosso» partono almeno alla pari. Sono sicuro che Napoli risponderà alla grande e il nostro pubblico saràun’arma importante. Per quanto mi riguarda, sono felice della convocazione, vestire la maglia azzurra è sempre un grande onore».
Tranne lo scorso anno hai sempre giocato grandi match al Foro Italico. Rimane uno dei tuoi obiettivi? «Il torneo di Roma è per me uno degli obiettivi più importanti e sentid di tutta la stagione. Se mi chiedessero di scegliere fra trionfare al Foro Italico o in uno Slam non avrei dubbi nel dire Roma! Lo scorso anno non stavo bene e non ho potuto dare il meglio, in questo 2014 spero di arrivare in piena forma. Un altro obiettivo è fare bene a Wimbledon».
E vincere una partita in uno Slam. Come procede la tua scommessa con Matosevic, tra gli unici due giocatori nei top-100 a non aver vinto un match in uno Slam? «Per fortuna Matosevic ha perso al primo turno a Melbourne, torneo che non ho potuto giocare per infortunio. Quindi a Parigi avrò un’altra chance. Spero proprio che sia lui a pagarmi la cena!».
Intervista a Tonino Zugarelli – Zugarelli, l’uomo in più dell’ultima Coppa Davis azzurra – Zugarelli «Io, l’ultimo della racchetta» (Daniele Azzolini, Avvenire, 29-03-2014)
Il circolo Panoli, nella Roma che un tempo si definiva olimpica, non esiste più, e a vedere quel che resta, coi tre campi sdraiati sotto le tribune dello stadio Flaminio, ti si stringe il cuore. Lì c’era la fontana, quando i grandi australiani del tennis gironzolavano da queste parti e facevano conquiste. E lì il signor Barbato, gran pittore e padre del giornalista tivvù, dipinse un murales che era uno spettacolo. Sparito anche quello. Roba da Mali Culturali, altro che Beni, dice Panatta quando ci passa.
Nemmeno il tennis di Zuga, esiste più. Ma non c’è cordoglio, nel parlare del caro estinto. E nemmeno rimpianto per i bei tempi andati. «Lo sport mi ha aiutato a scappare», racconta Antonio Zugarelli, Tonino, “Zuga”, penultimo finalista italiano agli Internazionali di tennis, 37 anni fa. Il ragazzo che somigliava all’attore Burt Reynolds e che sconfisse gli inglesi a Wimbledon nell’anno della Davis. «SI, scappare… Dalla vita violenta che mi circondava, e che prima o poi avrebbe finito per tirarmi giù. Lo sport mi ha salvato. Prima il calcio, poi il tennis…».
È l’inizio di un romanzo, fitto di ricordi e di immagini forti. La sua autobiografia, Zuga, il riscatto di un ultimo scritto con Lia Del Fabro (Edizioni Ultra, 16,50 euro, 192 pagine e 50 foto inedite) che sarà a breve in libreria Curioso sentirsi un ultimo, per uno che ha fatto la storia del tennis italiano. «Sono nato povero, la mia casa, dall’altra parte del Tevere, la tirò su mio padre. Il tetto era di lamiera, ma se mi credete, era dignitosa. Sono cresciuto II, in un villaggietto che ricordava quello del film di Scola, “Brutti sporchi e cattivi”. Ecco, la nostra vita, fu proprio quella di non sentirsi mai né brutti, né sporchi né cattivi. Ma non era facile…».
E basta questo per sentirsi un uldmo? «No, ma la battaglia quotidiana era con i molti che mi consideravano tale, e mi trattavano senza rispetto, a prescindere. A scuola avevo compagni di classe che son finiti male, molti di loro a Regina Coeli, il carcere. Io navigavo contro corrente, ma era necessario portare a casa qualche lira, tutti i giorni. Trovai lo sport e lo sport mi ha dato una mano. Ero un ottimo calciatore, al tennis facevo da raccattapalle per una mancia da 50 lire. Il calcio spari di colpo, quando feci un provino perla Roma. Mi dettero un minuto solo, e io in quel minuto feci una grande sgroppata sulla fascia e misi un cross preciso in area. C’era Oronzo Pugliese e mi prese sotto braccio, vedendomi deluso per quel minuto appena che mi avevano concesso. Del resto, gli altri erano arrivati in pullman con le maglie delle loro squadre. Io a piedi, e sembravo un gatto arruffato. Dopo un mese seppi che mi aveva preso l’Almas, ma nessuno mi spiegò che in realtà era la Roma che mi prestava per farmi crescere. Lo presi come un rifiuto, e mi tenni strette le 50 lire da raccattapalle».
Alla fine il tennis qualcosa le ha dato… «La mia fortuna fu un torneo, proprio qui, in questo circolo. Lo vinsi, ed era la prima volta che giocavo con un punteggio. Di II a poco mi dettero l’opportunità di diventare un giocatore, un lavoro e qualche soldo da portare ai miei. Esisteva ancora la divisione fra dilettanti e professionisti, e fare da palleggiatore significava essere espulso dalle competizioni. Trovai delle persone che capirono, quello fu il primo riscatto. Finalmente qualcuno che credeva in me».
Poi Formia, Belardinelli, il nucleo della Davis che comincia a formarsi, qui la storia va di pari passo con quella di Panatta, Barazzutti e Bertolucci… «Furono anni di crescita, di grandi insegnamenti. È vero, Belardinelli era un padre, per tutti, senza distinzioni. Avevo grandi doti fisiche e le mettevo in campo. Chissà, sul rovescio, che era il mio colpo, mi ha aiutato anche non avere mezzo pollice, che mi ero tagliato da piccolo, lavorando. Stringevo la racchetta in modo diverso dagli altri, e mi veniva naturale colpire la palla con un taglio che la faceva rimbalzare pochissimo. Nel 1976 scoprimmo che tutti ci conoscevano, e nelle case degli italiani cominciarono a spuntare le prime racchette. Un periodo irripetibile, una fortuna averlo vissuto in prima persona, ma perle sensazioni che si provava, non per i guadagni. Per quelli, oggi è tutta un’altra cosa…».
Una finale a Roma non le bastò per diventare ricco, insomma… «Vinsi dieci milioni di lire. Cinque, sei mila euro di oggi. Alla fine della mia carriera avevo i soldi per acquistare un appartamento, con il mutuo. Credetemi, ero felice. Ma i soldi, quelli veri, non facevano parte di quegli anni. Quando andavo a Parigi evitavo di iscrivermi al doppio, perché se avessi perso subito in singolare sarei stato costretto a rimanere chissà quanti altri giorni, e a spendere cifre che non potevo permettermi».
Lei ebbe difficoltà con Pietrangeli. Perché? «Perché tendeva a trattarmi come l’ultimo dei quattro. Come vedete, il punto è sempre quello. Io glielo dicevo… Nicola, dovresti saperlo, nel tennis non ci sono riserve. Quando ho giocato e vinto a Wimbledon, avresti detto che Barazzutti era la mia riserva? No, e allora?».
La Davis di oggi, i ragazzi che affronteranno la Gran Bretagna a Napoli la prossima settimana, è così lontana dalla vostra? «No, per niente. C’è un numero uno che sta crescendo, Fognini, e un secondo singolari-sta di ottima tenuta, Seppi. Anche un discreto doppio. Credo siano favoriti contro Murray, sulla terra rossa. La squadra di Davis è una costruzione a suo modo virtuosa, deve avere i ruoli coperti dalle persone giuste. Dopo tanti anni, mi sembra che l’Italia ora viva questa condizione».
E ora un libro, per una vita che è stata un po’ come un romanzo. Che cosa l’ha spinta a scriverlo? «Un caso… Ma nel farlo mi sono convinto che potrebbe essere utile. In fondo, dico ai ragazzi che si vive per crescere, ponendosi obiettivi, rispettando se stessi e gli altri. E chiedendo in cambio di essere rispettati».