TENNIS ATP MIAMI – La struttura non più al passo con i tempi e la vicinanza con Indian Wells lo rendono un torneo zoppo, dove i giocatori si presentano con le pile scariche. Cambiare superficie potrebbe rilanciarlo.
Questo non è articolo, piuttosto uno spunto di riflessione. Il torneo di Key Biscayne si è concluso da poco ma qualcuno già storceva il naso dopo le (non) semifinali: la storia è sempre la stessa, tanto per iniziare molta gente non tollera il fatto che Indian Wells e Miami occupino da soli un intero mese, a differenza degli altri Masters 1000 che invece durano una settimana. Il torneo californiano, se non altro, ha risorse illimitate da investire e infatti continua a crescere a vista d’occhio (i giocatori, sorelle Williams a parte, non se lo perdono per nessuna ragione al mondo), ma Miami? Struttura non più al passo con i tempi e vicinanza con Indian Wells lo rendono sempre di più un torneo zoppo, dove i giocatori si presentano con le pile scariche oppure non si fanno proprio vedere. E allora, considerando tra l’altro le difficoltà di espansione in un’oasi naturale come Crandon Park, che si può fare per ridare interesse a quello che vent’anni fa, quando ancora si chiamava The Lipton, veniva considerato il quinto Slam? Cosa ci si può inventare per tenere acceso l’interesse su una manifestazione che appare sempre più la sorella sfigata di Indian Wells? Chi vi scrive non ne sa nulla di organizzazione di tornei, men che meno di aspetti burocratici-economici. Però sogna, ha tante idee che gli passano per la testa, e una di queste riguarda proprio Key Biscayne.
Facciamo un piccolo ragionamento: solitamente i Masters 1000 precedono uno Slam, di conseguenza utilizzano (più o meno) la stessa superficie, fungendo così da eventi preparatori al Major. Indian Wells e Miami navigano invece in un mondo tutto loro: si giocano un mese dopo gli Australian Open e, dopo la loro conclusione, si passa alla stagione europea sul rosso. Dato per assodato che Indian Wells non si tocca e che Miami non ha le carte in regola per tenere il passo della creatura di Larry Ellison, sarebbe bello se gli organizzatori della Florida si inventassero qualcosa per restituire pathos ed interesse ad un torneo sempre più deludente. Una buona trovata sarebbe quella di cambiare superficie: ma sì, che senso ha tenere Key Biscayne sul cemento? Perché non farlo disputare sulla terra, verde possibilmente? Il discorso è semplice: il limestock americano è una terra verde più rapida e scivolosa di quella rossa, ma negli anni passati è stato un marchio di fabbrica del tennis a stelle e strisce. Su questa superficie si giocarono tre edizioni degli Us Open (1975, 1976 e 1977) ma oggi, escludendo il Wta di Charleston (Amelia Island è tristemente defunto), non si utilizza più. Ed è un peccato: nel tennis omologato di oggi, un ritorno al passato darebbe un po’ di pepe ad un circuito sempre più appiattito, invece di sperimentare cose strane come la terra blu sarebbe carino rimettere in circolazione il verde sabbioso che tanto riporta alla mente il tennis di una volta. Miami sarebbe il torneo ideale per questo esperimento: si gioca a ridosso della stagione sul rosso, per cui i tennisti lo affronterebbero con ben altro interesse (una sorta di preparazione in vista di Montecarlo e di tutti i grandi appuntamenti sui clay courts). E non è affatto scontato che così Nadal vincerebbe finalmente il titolo, dopo quattro scoppole in finale: ricordate Borg agli Us Open 1976 e la stesa in quattro set che prese da Connors, non certo un terraiolo? Invece di pensare a come disboscare Crandon Park per ingrandire l’impianto e rincorrere affannosamente Indian Wells, gli organizzatori di Miami dovrebbero prendere in considerazione questa idea. E pazienza se Nadal e Djokovic si lamenteranno come a Madrid 2012: non è possibile accontentare tutti.