TENNIS – Il tennis è sinonimo di professionismo, ossia massima qualità di gioco per gli appassionati e chance per chiunque di poter emergere, ma anche lo sport dilettantistico ha le sue qualità, come aneddoti popolari e birre insieme ai propri idoli a fine partita. L’esempio del rugby e del passaggio al professionismo nel 1995.
In un articolo dello scorso anno apparso su tennis.com alla fine di Wimbledon, Peter Bodo osservava come quella che dai più viene definita Golden Age del tennis moderno, per il livello e il dominio che i Fab Four hanno imposto al resto del circuito maschile, fosse in realtà foriera di uniformità di gioco e prevedibilità nei risultati (almeno nella composizione delle semifinali dei maggiori tornei), preferendo in modo anticonformista il circuito femminile perché meno appiattito e in grado di offrire giocatrici che mettono in campo caratteristiche più variegate, dall’esplosività della Williams all’intelligenza della Radwanska o alla regolarità della Errani.
Il suo articolo può essere ripreso oggi come spunto di riflessione per tutt’altro argomento, ossia la dicotomia tra dilettantismo e professionismo. Quando citava infatti la “pessima finale femminile” tra Marion Bartoli e Sabine Lisicki, la prestigiosa firma americana parlava di ventata di aria fresca per aver visto “due piuttosto familiari eppure inattesi talenti che si giocavano la chance della vita”. Ecco, sono quei familiari talenti che si giocano la chance della vita che possono evocare un modello di sport passato, nel quale c’era più spazio per le sorprese e le storie di ragazzi venuti dal nulla e divenuti campioni di quanto non accada oggi: gente che, pur impegnata in altri lavori e fatiche per guadagnarsi da vivere, dava tutta se stessa in nome della passione per lo sport che praticava e alla fine riusciva, magari anche solo per un giorno, a vivere il suo momento di gloria. Per quanto in realtà lo sport attuale sia pieno di sorprese e storie del genere (ed è anche per questo che risulta così bello e di esempio per le vite di appassionati e tifosi), è innegabile che tali situazioni fossero per forza di cose più frequenti quando lo sport si collocava in una dimensione più dilettantistica. Per carità, sarebbe ridicolo sparare sul professionismo in un sito di tennis, lo sport professionistico per eccellenza. È però interessante mettere a confronto le diverse caratteristiche dei due modi d’intendere lo sport.
Rino Tommasi, nel suo diario di una vita da giornalista sportivo (“Da Kinshasa a Las Vegas via Wimbledon. Forse ho visto troppo sport”, ed. Limina), racconta che, a chi rimpiangeva del dilettantismo il tennis dei gesti bianchi, dei gentiluomini e delle buone maniere, ha sempre risposto che senza il professionismo molti ragazzi di umile estrazione sociale avrebbero dovuto rinunciare al loro potenziale talento e ai loro sogni per pensare a sbarcare il lunario, togliendo così al tennis un esercito di campioni che hanno poi deliziato il pubblico con la loro classe. Nulla di più corretto, così come è vero che fare di uno sport la propria professione non può che alzare al massimo il livello di gioco e spettacolo offerti, potendosi concentrare a tempo pieno sulle proprie prestazioni.
Rimane però nello sport d’antan dell’era dilettantistica un’aurea di rusticità, familiarità e aneddoti popolari che è molto più difficile ritrovare nello sport professionistico. Il prendersi il tempo di bere una birra insieme come amici dopo il match vissuto da avversari, convertendo l’agonismo della competizione nella socialità di una bevuta e di un commento sulla sfida, l’immane fatica di doversi alzare il lunedì mattina per andare a lavorare pur pieni di acciacchi fisici (e non c’è verso, chi non guadagna dallo sport che pratica e adora non ha alternative). Esemplificativo di tutto questo è il passaggio al professionismo che il rugby ha attraversato nel 1995. Molti ex giocatori mettono spesso a confronto i due modelli di rugby, chi riconoscendo maggiori qualità di gioco e spettacolo oggi, chi sottolineando la nostalgia per i tempi in cui al fischio finale, anche in match di respiro internazionale, i tifosi invadevano il campo festeggiando per direttissima coi loro beniamini, per poi organizzare grigliate improvvisate nel parcheggio dello stadio, fosse anche il tempio inglese di Twickenham (lo racconta Fabrizio Zupo in un bellissimo libro del 2007 che ripercorre la storia della nazionale italiana – “Inseguendo il paradiso del rugby”, Ed. Nutrimenti).
Per quello che può significare la mia piccola esperienza personale, da adolescente ho giocato a hockey su prato a livello agonistico, prendendo parte a diverse trasferte del Campionato Nazionale Allievi, magari favorito anche dalla scarsa diffusione di questo sport nel nostro paese … Ebbene, quando seguivo in tv le prime partite di rugby della nazionale degli anni Novanta (allora allenata da George Coste, la squadra che a suon di storiche vittorie contro Francia, Scozia e Irlanda ci aprì le porte dell’allora Cinque Nazioni), nelle maglie ancora in cotone con gli stemmi cuciti, nelle riprese degli spogliatoi non esattamente da hotel di lusso, nei palloni color cuoio così diversi da quelli di oggi, nelle tribune in legno degli stadi britannici che trasudavano umidità, era per me chiara qualche analogia con le sgangherate trasferte della mia squadra locale in giro per i campi di provincia di Emilia, Lombardia e Veneto. C’era insomma una forma d’immedesimazione nelle scorribande di quella squadra che, a distanza di una quindicina d’anni, è impossibile riscontrare, almeno a livello di partite tra rappresentative nazionali.
Fortunatamente, il tennis e il rugby riescono spesso a uscire in qualche modo vincenti da questa dicotomia, offrendo talvolta esempi che non schiacciano taluni pregi dell’epoca dilettantistica in due mondi completamente votati al professionismo.
Wimbledon conserva nei codici comportamentali e nei suoi riti, ufficiali e non, tutta la tradizione cui gli inglesi, in quanto tali, mai rinuncerebbero. Dalle parti di Church Road, giocatore numero uno al mondo o tifoso qualunque tu sia non c’è verso: non entri in campo se un centimetro quadro della tua mise non è rigorosamente bianca, suola delle scarpe comprese (ricordate la multa inflitta lo scorso anno al sette volte campione Federer per avere indossato scarpe dalle suole arancione ? – lasciate stare il buon senso, non è di questo che stiamo parlando…), puoi scordarti di vedere una partita la Domenica centrale del torneo (anche quando Giove Pluvio ha rallentato il programma e sarebbe l’ideale recuperare…), sei considerato un eretico profanatore se non hai gustato le fragole con la panna (che poi sappiano di plastica è un altro discorso…) o se non hai seguito almeno un match sulla Murray Hill. Il tempio londinese del tennis non ignora le esigenze di sponsor e tv, ma difende il suo modo di essere in nome della tradizione.
Nel rugby la sacralità del Terzo Tempo è rimasta ed è ancora spesso possibile per i tifosi mischiarsi ai loro idoli perdendosi in foto ricordo e birra (indimenticabile il post partita vissuto tra una pinta e l’altra alla Club House dello stadio Zaffanella di Viadana, insieme a gente del calibro di Mauro Bergamasco e Marco Bortolami, due monumenti del rugby italiano degli ultimi dieci anni, e la foto ricordo con Stephen Jones, mediano d’apertura del Galles che centrò il Grande Slam nel Sei Nazioni del 2005 e del 2008). Certo, oggi in manifestazioni come la Coppa del Mondo, specie nelle partite dei gironi eliminatori, finito il match i giocatori si limitano a salutarsi e tornare in albergo, mentre nelle prime edizioni, nel 1987 in Nuova Zelanda o nel 1991 in Gran Bretagna, se uno non si fermava al pub a fraternizzare con l’avversario che magari gli aveva appena fracassato il naso in uno scontro di gioco poteva tranquillamente scordarsi di essere messo a referto dall’allenatore per la partita successiva.
Ah che bello lo spettacolo dello sport di oggi, ma che fascino lo sport di un tempo!