TENNIS MASTERS – Lo svizzero numero 2 è uscito dall’ombra del leggendario compagno grazie ad una grande stagione. Ma Wawrinka è più (e meglio) di un fuoriclasse. “The man” un giorno dimenticò di fallire
Certamente è eccessivo sostenere che Samuel Beckett deve gran parte della sua notorietà contemporanea a qualcuno che si occupa (forse) di ben più misere cose. Ma certo la frase “Ever tried. Ever failed. No matter. Try again. Fail again. Fail better” da un paio d’anni non giunge sicuramente nuova agli appassionati di tennis. E chi più di qualcuno che è soprannominato “The Man” poteva invaghirsi di una condizione esistenziale così comune, quella del fallimento?
Cresciuto all’ombra di un semidio, fisico medio, forse un po’ tracagnotto, figlio di genitori impegnati con i diversamente abili, poco contento di andare a scuola, Stan decide abbastanza preso di abbandonare la scuola per dedicarsi al tennis. Non sarà l’ultima volta che molla un impegno per la racchetta. Nel gennaio del 2011 lo svizzero decide di farsi numerosi amici comunicando urbi et orbi che si sarebbe allontanato dalla famiglia (compresa la piccola Alexia) per salvare la sua carriera. Sembra la vanagloria di un mitomane, Wawrinka emerge da una specie di anonimato solo quando negli ottavi di finale a Melbourne toglie 5 volte di fila il servizio a Djokovic e lo trascina ad un sanguinoso quinto set.
Ma perde e perde, perde talmente tanto che dopo Indian Wells cerca uno che fa tatuaggi perché la sconfitta vuole incidersela per bene nel corpo. O forse nell’anima. È un essere umano quindi perde. Anzi fallisce. Ma “the man” ci riprova, fallirà meglio, sempre meglio. Magari fino alle semifinali di New York contro Djokovic naturalmente. O forse fino a Melbourne quando ha davanti Nadal uno a cui non aveva mai neanche strappato un set. Ma fallendo fallendo Wawrinka trova la giornata perfetta. Nadal non trova mai la palla è sbatacchiato di qua e di là di dritto e di rovescio, l’infortunio sembra la logica conseguenza di una quarantina di minuti di ceffoni. Ma Stan è un uomo, non si trova bene tra i super eroi, prova a tornare sulla terra a fallire ancora, ma non è il suo giorno o forse sì perché anche gli uomini che falliscono è concesso un giorno di gloria.
Stan non esulta, non è più alle spalle della leggenda ma torna presto quello che era. Torna a fallire. A Indian Wells a Miami, in Coppa Davis. Apre una parentesi a Montecarlo ma chissà, forse solo in onore del suo amico. Crolla a Madrid e a Parigi, a Roma concede gloria ad Haas, a Wimbledon restituisce il favore all’amico. Torna sul cemento le cose migliorano un po’ e arriva a New York dove gioca la miglior partita del torneo contro Nishikori, incontro indimenticabile per chi ha avuto la fortuna di vederlo. Perde ovviamente, cosa mai potrebbe fare? Ancora dei crolli in Asia, poi la terza sconfitta dell’anno contro Anderson a Bercy. L’annata che si era aperta col giorno di gloria diventa un cammino di passione, anzi, di fallimenti. Arriva a Londra con il vantaggio di non trovare quel lungo sudafricano che proprio non riesce a battere e di ritrovare quel Djokovic che tanta importanza ha avuto nei suoi ultimi due anni. Berdych e Cilic saranno dei comprimari perché è vero che fallisci ma non sempre e non con tutti. E lui sa bene che “se non sei Roger o Rafa o Andy o Nole non vinci tanti tornei, perdi sempre. Perché se una sconfitta ti ammazza, è difficile giocare a tennis. Semplice”. Per un uomo, per Stan the Man.
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