TENNIS – L’ex calciatore è stato il solo, al recente convegno sul doping indetto dal CONI, ad aver espresso un concetto originale. Ma condivisibile. Doping e combine di scommettitori, due modi per truffare il prossimo.Ma le federazioni non sanno mai niente. Non pagano pegno, ma anzi…
Quando Damiano Tommasi, ex calciatore di sicura personalità e intelligenza nonché presidente dell’Assocalciatori, ha sostenuto Demetrio Albertini che ha perso le elezioni della FIGC, battuto dal presidente Carlo Tavecchio, sì quello delle banane e di “Opti Poba che gioca in serie A”, ho pensato – conoscendo i meccanismi elettorali delle federazioni sportive e i vari inciuci- che probabilmente non aveva vinto il miglior presidente.
Tommasi è stimato da tutti, per le scelte che ha fatto nel passato da calciatore e nel presente da dirigente. Non è mai stato un personaggio banale.
Sensazione che mi sono confermato quando ho saputo del suo intervento al convegno sul doping indetto dal CONI, pochi giorni dopo la deflagrazione del caso Carolina Kostner che rischia squalifiche più lunghe dell’ex fidanzato Schwazer che si dopava.
Tommasi è stato l’unico fra gli intervenuti a far notare la pericolosità della logica di premiare in termini di investimenti le federazioni che raccolgono migliori risultati in ambito internazionale e a sostenere che “Potrebbe essere un buon segnale quello di penalizzare le federazioni in caso di scandali per commissariamento o eventuali casi di positività”.
Pienamente d’accordo con lui, Sandro Donati, consulente Wada (l’agenzia mondiale antidoping) una delle poche personalità del mondo dello sport che non abbia mai avuto peli sulla lingua a proposito di doping -ha scritto numerosi libri che hanno raccontato tanti aspetti della battaglia antidoping così ricca di ipocrisie – e anche di federazioni che “andrebbero penalizzate nel caso in cui si dimostrino complici od omissive per fatti legati al doping”.
In effetti cosa succede oggi? Semplicemente che le federazioni sportive ottengono dal CONI soldi in rapporto ai risultati internazionali dei loro atleti. Risultati che naturalmente sono loro stesse a stimolare (e chiedo scusa per l’uso del verbo stimolare) garantendo premi legati alla conquista di una medaglia olimpica che atleti di certe discipline minori altrimenti non vedrebbero mai.
Ma se qualcuno di quegli atleti poi risulta dopato, o anche implicato in qualche scandalo, tipo scommesse nel calcio come nel tennis ed in altri sport, l’atleta dichiarato colpevole viene squalificato – quando il “reato” non viene prescritto – e sputtanato, ma quella federazione che si era avvalsa di quelle sue prestazione truccate dal doping o anche da una combine, dopo aver preso a suo tempo i soldi per quei risultati, se li tiene. Non li rende mai. Cadono dalle nuvole i nostri dirigenti, non sanno mai nulla, non si sono accorti di nulla. Tutt’al più dichiarano: “Se verranno trovati colpevoli fra i nostri tesserati siamo noi la parte lesa”.
Troppo comodo.
Il giro d’affari dei prodotti dopanti è pari a 200 miliardi di euro secondo rapporti presentati a vari convegni da persone preparate. Più o meno la stessa cifra che procura alle società di betting il giro di scommesse nel tennis.
Ma le federazioni, tutte eh, non solo le nostre, se qualcuno si macchia di quella che è una vera truffa, una frode nei confronti degli altri atleti “puliti” che non si drogano o anche degli scommettitori ignari che non sospettano combine dei giocatori, chiudono un occhio, quasi sempre due. Pilatescamente.
Sandro Donati ha dichiarato al collega Dario Pellizzari di Panorama (lo stesso che una volta ha scritto di uno scandalo che riguardava la FIT): “Il doping è un fenomeno tipico di tutti i Paesi al mondo e prevede alcuni denominatori comuni. Mi riferisco ad esempio ai medici ‘dopatori’, che diventano meta di riferimento per atleti di nazionalità diversa. Ma pure ad alcuni manager, che indirizzano gli atleti che fanno parte della loro scuderia, spesso eterogenea per discipline sportive e passaporto, presso i centri trasfusionali che permettono le emotrasfusioni. Ecco perché non si può fare un discorso legato a un singolo Paese, è un problema generale, che coinvolge tutti in tutto il mondo. Le Federazioni sportive internazionali hanno evitato per anni di affrontarlo di petto. Ora chi è più avanti di tutti in questo ambito è la Federazione ciclistica internazionale, perché messa in difficoltà dagli scandali che si sono succeduti negli ultimi tempi, ha deciso di dare un giro di vite al fenomeno con misure radicali ed efficaci. E’ la federazione che meglio di altre affronta il monitoraggio degli atleti attraverso il sangue per quello che viene chiamato ‘passaporto biologico’. Nelle altre federazioni, è una procedura che viene usata col contagocce oppure per niente”.