Agli Australian Open la finale femminile ha ribadito le gerarchie esistenti; ma non è mancata una importante novità, con la presenza in semifinale di Madison Keys
Una bella finale ha concluso gli Australian Open. Alla partita decisiva sono arrivate la numero uno e la numero due del ranking; e, come da gerarchia e da precedenti, ancora una volta Serena ha finito per prevalere.
Williams ha raggiunto quota diciannove Slam e merita ogni elogio. Ma siccome a tennis si gioca in due, credo che questa volta si debba dare atto a Sharapova di essere stata una degna antagonista, almeno per due motivi: intanto perché, pur perdendo, ha concluso la partita con un saldo attivo tra vincenti ed errori; e poi perché di fronte allo strapotere al servizio dell’avversaria non si è arresa sino all’ultimo, cercando comunque di mantenere l’equilibrio nel punteggio grazie ad una leggera prevalenza negli scambi.
E se posso esprimere un parere del tutto personale, Maria ha vinto il confronto nei discorsi di premiazione: non tanto per i contenuti, quanto per i toni, che per una volta non mi sono sembrati diplomatici e un po’ scontati. Avrebbe potuto cavarsela con i soliti complimenti preconfezionati nei confronti della vincitrice, invece ne ha riconosciuto il valore e la grandezza (anche storica) in modo esplicito e inequivocabile.
Ma già al momento della stretta di mano mi era sembrato che ci fosse un clima più disteso. Forse la consapevolezza da parte di entrambe di aver dato il proprio massimo (spendendo moltissimo anche sul piano nervoso) potrebbe averle lasciate non solo senza rimpianti, ma anche senza rancori. Almeno per questa volta.
Tecnicamente secondo me la partita ha ribadito che per le attuali tenniste di vertice cercare di sconfiggere Serena con grandi doti da attaccante ma scarse qualità difensive è quasi impossibile. Kvitova ad esempio, non ci è mai riuscita e Maria perde da dieci anni. Azarenka se la gioca meglio, perché ha colpi di contenimento superiori e perché in alcune occasioni è stata capace di rispondere in modo straordinario.
A mio avviso, al di là delle differenze tra le varie giocatrici, rispetto alle sue classiche antagoniste il sostanziale divario è determinato dalla qualità della prima di servizio: nei grandi appuntamenti Serena parte con almeno una dozzina di punti di vantaggio sotto forma di ace, che pesano come macigni sull’esito delle partite.
Se per esempio confrontiamo i numeri della finale di sabato vediamo che con il colpo di inizio gioco, al netto dei doppi falli, Serena ha vinto 13 punti in più (18/4 rispetto a 5/4), mentre nel bilancio complessivo della partita il saldo è inferiore: +12 (76 a 64).
Sino ad oggi questo gap al servizio nei confronti della migliore concorrenza sembrava un dato strutturale e assodato, qualsiasi fosse la giocatrice che provava a contrastarla.
Dico sembrava, perché agli Australian Open qualcosa di diverso è accaduto. Mi riferisco alla prestazione di Madison Keys e ai numeri della partita che l’ha vista protagonista proprio contro Serena.
Li inserisco subito, per avere un riferimento completo:
La prima cosa che balza all’occhio è il sostanziale equilibrio negli ace: 13 a 12. Tredici ace in due set da parte di Serena sono un tipico valore da Williams in versione “sono concentrata e non regalo partite”. Anche in questo match quanto sia straordinaria Serena lo si è visto nel tiebreak del primo set: una serie di battute fantastiche con cui ha liquidato i suoi turni di servizio ogni volta mettendo pressione all’avversaria. Ma in questo caso Madison ha replicato quasi allo stesso livello: i suoi dodici ace sono riusciti quasi ad annullare il normale vantaggio di cui dispone la numero uno del mondo.
L’altro aspetto che emerge è la preponderanza di vincenti da parte di Keys: 27 a 19 (15 a 6 al netto del servizio). In sostanza Serena ha finito per prevalere grazie al minor numero di errori gratuiti (16 a 39).
Ecco, considerando l’insieme di questi dati credo si possa dire che ci troviamo di fronte ad una vera novità nella storia dei confronti contro la numero uno del mondo; se a questo aggiungiamo la semifinale raggiunta a Melbourne, penso che il gioco di Madison Keys meriti un approfondimento.
Se possiamo trovare un filo conduttore nello sviluppo degli ultimi anni di tennis femminile forse lo si può identificare nella aggressività. E’ stata la capacità di aggredire e tirar forte delle sorelle Williams che ha spodestato le geometrie lucide ma non sufficientemente potenti di Martina Hingis. E da allora per tutte le giocatrici nate negli anni ’80, salvo rarissime eccezioni, prendere l’iniziativa e comandare lo scambio è diventata la chiave per raggiungere i successi più prestigiosi, quelli negli Slam.
E probabilmente non è un caso che sino ad oggi l’unica giocatrice nata negli anni ’90 capace di vincere dei Major sia stata Petra Kvitova, che tra le sue coetanee è quella con il tennis più aggressivo.
Tenendo presente l’evoluzione del tennis femminile, possiamo dire che Madison Keys si propone come la giovane con il tipo di gioco più in linea con questa tendenza prevalente (quanto meno negli Slam). Significa che possiede quello che si definisce “big game”, tanto è vero che nel confronto diretto i numeri ci dicono che è stata addirittura più aggressiva di Serena.
(Su questo tema mi riprometto di tornare con un articolo specificamente dedicato: quali sono le giovani giocatrici con il big game e quali no).
Ma come gioca Madison Keys?
La prima cosa che balza all’occhio è la sua velocità di palla, in ogni colpo: che si tratti di servizio, di dritto e o di rovescio, dimostra di riuscire a far viaggiare la palla con medie superiori a quasi tutte.
Secondo la scheda WTA è alta 1,78; fisicamente è una ragazza con il baricentro alto: longilinea non solo di gambe, la mia impressione è che soprattutto le braccia siano particolarmente lunghe. Significa che ha leve di misura simile a giocatrici di statura maggiore.
A queste caratteristiche dobbiamo aggiungere la sue straordinarie doti di timing e di precisione nel movimento: dai replay sembra sempre che colpisca la palla nella zona ideale dell’ovale della racchetta (lo sweet-spot).
Il tutto si traduce in una facilità assoluta nel generare potenza: tanto è vero che uno dei suoi errori più frequenti è la palla che finisce lunga per mancanza di sufficiente copertura in top spin con il finale del colpo.
Al Roland Garros 2014 venne misurata come la giocatrice con la maggior velocità media di palla, e i dati sono stati confermati anche agli ultimi Australian Open; terza nel palleggio è risultata Serena Williams (69 miglia orarie, 111 km/h) seconda Maria Sharapova (70 miglia), e prima Keys, addirittura con 75 miglia (120,6 km/h).
Al servizio Madison dispone di una prima piatta da 200 km/h, ma può anche vantare una esecuzione in kick di primo livello. Ho già avuto occasione di parlarne in un articolo specifico: secondo me nel circuito ci sono quattro giocatrici che hanno un servizio in kick superiore: sono Stosur, Serena, Hercog e appunto Keys.
Ma siccome Madison è di gran lunga la più giovane delle quattro, non meraviglia che, mese dopo mese, il suo colpo di inizio gioco diventi sempre più incisivo.
Il dritto è il colpo da fondo più sicuro e pericoloso. È in grado di far viaggiare la palla a velocità sorprendenti, e non è raro vedere la sua avversaria incapace di replicare a traiettorie che pure non finiscono nemmeno troppo lontane da dove si trova: ma la velocità è tale da rendere comunque impossibile organizzare il colpo.
Durante l’ultimo Slam la telecronista inglese Sam Smith raccontava come Lindsay Davenport (grande “ex”, e nuova allenatrice di Madison) avesse raccomandato di non rischiare troppo con i lungolinea, visto che con gli incrociati era in grado di fare danni più che sufficienti.
Il rovescio è meno stabile, e la mia impressione è che soprattutto da come le riesce il lungolinea si capisce se è in giornata o no: se le entra anche quel colpo allora sono davvero dolori.
A rete non è male, (forse meglio di dritto che di rovescio), se la paragoniamo al livello delle giocatrici contemporanee. Ma se il riferimento è l’eccellenza assoluta nel gioco di volo allora direi che c’è molto spazio per progredire.
Sul piano della mobilità e del gioco difensivo soffre dei limiti determinati dalla costituzione fisica: le gambe lunghe le consentono di correre piuttosto bene, ma la penalizzano nei cambi di direzione; di conseguenza soffre se obbligata ai “tergicristallo” e in generale nelle situazioni in cui il colpo va organizzato in pochissimi istanti.
Forse qualcuno si ricorderà i problemi contro Camila Giorgi in Fed Cup e quanto le risposte anticipate (profonde e centrali, nei piedi) l’avessero messa in difficoltà in uscita dal servizio.
Le sue doti speciali erano emerse già nel 2013: in gennaio al torneo di Sydney, ancora diciassettenne; e poi qualche mese dopo a Wimbledon, quando ad un certo punto del match contro Radwanska aveva cominciato a “sballottare” qua e là per i prati la finalista in carica del torneo, arrivando ad un passo da una clamorosa eliminazione, poi mancata per un difetto di lucidità nel finale.
http://www.dailymotion.com/video/x11sv3i_agnieszka-radwanska-vs-madison-keys-2013-wimbledon-highlights_sport
Da allora credo che un po’ tutti gli appassionati avessero cominciato a guardare a lei con un occhio di riguardo, perché era apparso chiaro che prima o poi potesse esplodere a livelli altissimi. Ma, come sempre, ogni giocatrice ha i suoi tempi di crescita: un anno fa, nell’articolo che precedeva gli Australian Open 2014 l’avevo segnalata come giovane da seguire e invece era stata eliminata al secondo turno da Zheng Jie.
In conclusione racconto una breve vicenda, da cui si capisce come a volte anche la sfortuna possa rallentare i processi di crescita.
A Melbourne durante la partita con Venus (e poi anche contro Serena) ha sofferto di un problema all’adduttore della gamba che l’ha un po’ limitata; lo stesso guaio di Wimbledon 2014. Allora, reduce dalla vittoria di Eastbourne, si era presentata in grande forma; ma al terzo turno contro Shvedova le tante partite giocate in poco tempo si erano fatte sentire: infortunio nel secondo set.
Forse qualcuno ricorderà come nella prima settimana dell’ultimo Wimbledon la pioggia avesse fatto accumulare gravi ritardi.
Quella partita era cominciata sabato, nel tardo pomeriggio e quindi era in arrivo l’oscurità: mentre sugli altri campi le partite venivano fermate, sul suo campo il giudice di sedia si rifiutava di interrompere il gioco. La povera Madison faceva partita pari giocando letteralmente su una gamba sola, facendo affidamento soltanto sui colpi di inizio gioco e su quelli che riusciva ad eseguire quando la palla arrivava nei pressi.
Siccome nel primo set Shvedova aveva vinto il tiebreak, penso che il giudice di sedia stesse tenendo duro, convinto che Madison sarebbe crollata; e dato che il torneo aveva già accumulato gravi ritardi, avrebbe chiuso almeno quel match in giornata. Tanto era una giovane giocatrice, nemmeno testa di serie, sacrificabile alle superiori esigenze di programmazione.
Ma Keys in qualche modo rimaneva in partita: quello che non poteva fare con le gambe, compensava con il braccio.
Mi sono rimaste impresse le ultime inquadrature prima dell’interruzione, effettuate da una terrazza adiacente: Wimbledon era ridotto ad un panorama di luci che punteggiavano un buio indifferenziato; nemmeno le telecamere di ultima generazione riuscivano più a rendere visibile la palla. E se pensate che stia esagerando, questo filmato mostra com’era la situazione al momento dello stop.
Finalmente, di gran lunga ultimo di tutto il torneo, il giudice di sedia era stato costretto a sospendere la partita, sul 6 pari secondo set.
L’interruzione era sembrata la salvezza di Madison, visto che avrebbe avuto anche la domenica senza partite per recuperare; ma l’infortunio era piuttosto grave, e probabilmente l’averci “giocato sopra” aveva peggiorato le cose: e così Keys aveva dovuto rinunciare al proseguimento del match, chiudendo amaramente la stagione su erba. Malgrado le premesse, non era quello lo Slam in cui avrebbe sfondato.