di Manuel Jabois (giornalista e scrittore spagnolo), pubblicato da El País il 17 gennaio 2024
A dicembre 2020 Shalma El-Shebab va a trascorrere le vacanze in Arabia Saudita dal Regno Unito, dove lavora come igienista dentale, ha due figli e sta completando un dottorato a Leeds. Appena atterrata viene arrestata: dal suo profilo Twitter (quello che adesso si chiama X) aveva ripostato gli interventi di dissidenti e attivisti critici con il regime saudita. Rimane un anno in carcere in attesa di giudizio e a quel punto è condannata a sei anni di prigione. C’è stato un secondo giudizio in corte d’appello, ma senza avvocato: in questo caso le sono stati inflitti 34 anni di carcere. Quando uscirà non potrà lasciare il Paese per altri 34 anni. È stata condannata per aver «destabilizzato la sicurezza civile e nazionale» sui social network; sul suo profilo El-Shebab aveva 2.600 follower.
No, Rafa Nadal non può essere il primo puro e duro a difendere le libertà occidentali né può analizzare caso per caso i limiti di ogni Paese per rifiutare di stabilirci legami commerciali. Però la storia di El-Shebab non è un aneddoto: è la norma. Sono dati di Amnesty International: le donne in Arabia Saudita non possono fidanzarsi né sposarsi senza il permesso di un uomo (il padre o il tutore), non possono nemmeno divorziare senza il consenso del marito (il marito invece può farlo e una norma recente lo obbliga a comunicarlo per SMS, perché prima poteva divorziare senza nemmeno avvisare); non possono frequentare alcune facoltà universitarie senza il permesso di un uomo (padre o marito) né ricevere alcuni trattamenti medici né vivere da sole senza un permesso di questo genere. Dal 2015 possono votare e persino creare un’impresa senza l’autorizzazione di un maschio; dal 2018 possono guidare. E le donne con più di 21 anni ormai possono viaggiare all’estero senza il permesso del loro tutore. Attenzione, però, a ciò che twittano dall’estero.
Quanto all’omosessualità, può portare fino alla pena di morte, per cui chi la vive la deve nascondere, pena finire torturato a frustate nella pubblica piazza, incarcerato o condannato a morte dallo Stato. Dal 2019 il femminismo, l’ateismo e l’omosessualità sono ufficialmente «idee estremiste».
Rafa Nadal, uomo informato, sa tutto questo. Nel 2017 un reportage sul supplemento Icon del País si intitolava “Com’è possibile che Nadal piaccia a tutti gli spagnoli? 20 frasi che potrebbero spiegarlo”. Le 30 frasi non erano banali. Nadal parlava dell’indipendentismo catalano, di un’indagine che il fisco aveva aperto nel 2012 su alcune sue società, del comportamento dei politici in Parlamento, del conflitto con Gala León, capitana della squadra di Davis nel 2015. Ma lui ne usciva sempre bene. Sette anni dopo Nadal è già una leggenda vivente, considerato uno dei più grandi sportivi della storia, ed è un uomo che protegge ad ogni costo qualcosa che non può ottenere con la racchetta o con i soldi: l’affetto dei milioni di appassionati, la sua straordinaria reputazione come tennista esemplare, dal comportamento impeccabile, solidale, generoso, pieno di attenzioni; non sono aggettivi gratuiti: chiedere a chiunque lavori nel circuito, tennista o meno.
Che cosa spinge una figura come lui ad annunciare un accordo con l’Arabia Saudita? Non si rende conto che lui, Rahm, Cristiano o Benzema sono “utili idioti”, funzionali a legittimare la terza dittatura al mondo per numero di condanne al patibolo, uno dei Paesi che calpestano maggiormente la libertà di espressione, la libertà sessuale, i diritti umani? Se non è il denaro (qui ci sta un emoticon che esprime ovvietà), perché sceglie questo Paese e non un altro, in cui ci siano tanti bambini, sicuramente meno risorse economiche e il suo volto e il suo nome non siano al servizio della propaganda di una dittatura iper-religiosa in cui vivere è insopportabile a meno di assomigliare a Rafa Nadal?
Il tennista spagnolo, impegnato probabilmente nel suo ultimo anno sul circuito, un assalto epico, non ne aveva certamente bisogno: non lui, che è già un simbolo nella posizione delicata di chi si può difendere solo dicendo la verità (soldi, affari); e non può fare nemmeno questo. Proprio nel fine settimana in cui Toni Kroos è finito travolto dai fischi (“nella finale di Supercoppa spagnola, giocata in Arabia Saudita per decisione del presidente della Federcalcio Rubiales e di Gerard Piqué nelle vesti di manager sportivo, il centrocampista del Real Madrid è stato costantemente fischiato perché in un’intervista, la scorsa estate, aveva criticato i giovani calciatori europei che rinunciano a costruire una carriera sportivamente credibile in nome dei soldi offerti dai sauditi” n.d.t. ) di una gara venduta alla dittatura, con i buoni uffici di Rubiales e Piqué, perché non si è prestato a una farsa evidente a tutti, che rimangono in silenzio mentre contano le banconote: il fatto che l’Arabia Saudita ha tanto denaro da potersi comprare quasi tutto, incluso ciò che sta più a cuore ai tifosi. Un Paese (un regime) in cui è atterrato un tennista che si è sempre vantato di evitare gli estremismi ed è finito a fare da testimonial al peggiore di tutti.
Traduzione di Alessandro Condina