L’eterna promessa americana, Ryan Harrison, ha messo in mostra notevoli miglioramenti ad Acapulco, ma gli USA si aspettano qualcosa in più e Ryan soffre sensibilmente la pressione. Dove può arrivare con questi colpi? Il tempo per la maturazione definitiva è arrivato!
Ora o mai più; no, non è il titolo di un film, di una canzone, o il motto di un esercito di guerrieri intenti a combattere il nemico, ma la frase che Ryan Harrison dovrà assimilare e far sua in questo 2015. Le vittorie su Young, Dimitrov e Karlovic, in Messico, fanno ben sperare, ma non basta. Ryah ha bisogno di continuità per raggiungere il suo sogno: essere il più forte tennista del mondo.
L’americano, classe 1992, nativo della Lousiana, è da anni descritto come l’erede della grande tradizione di tennisti americani, quantomeno l’erede di Andy Roddick, che ha preso a cuore le sorti del giovane Ryan. A dire il vero, il numero 109 delle classifiche ATP bene si è comportato a livello giovanile, raggiungendo la posizione numero 7 (best ranking per lui) e diventando, a 15 anni 11 mesi e 342 giorni, il giocatore più giovane, dopo Nadal e Gasquet, a vincere un match ATP (con il successo su Cuevas a Houston). I proclami si sprecano per il giocatore a stelle e strisce: il modo in cui colpisce il servizio e chiude lo scambio perentoriamente con il dritto (frutto dell’insegnamento di Nick Bollettieri), riporta ai fasti del tennis americano che fu, forse un pò troppo precipitosamente. Da professionista, lo statunitense è il primo teenager a battere un top 20 (Ivan Ljubicic agli Us Open 2010) dai tempi di Roddick; nel 2011 è il secondo giovane con la miglior classifica ATP, dopo Tomic (altro giocatore su cui ci sarebbe da scrivere un libro). Ryan raggiunge una parvenza di maturazione nel 2012, anno in cui raggiunge il suo best ranking (quarantatreesima posizione a Luglio). Ma da lì crolla, vincendo solo due incontri nella parte finale dell’anno. Le stagioni 2013 e 2014 non sono all’altezza delle aspettative, con sole 16 vittorie nel circuito maggiore e 34 sconfitte, più la separazione dal suo storico coach Grant Doyle e l’inizio di un rapporto professionale con la USTA e con Jay Berger.
Da Novembre dello scorso anno il ventitreenne americano decide di tornare all’usato sicuro, Grant Doyle (“non avevo capito quanto lui fosse importante per me, ci credeva davvero”), oltre all’aggiunta di un componente importante, che pare aver infuso fiducia e coraggio nella flebile psicologia di Harrison: Andy Roddick. L’ex kid del Nebraska ha preso a cuore le sorti di Ryan, consigliandogli di riassumere Doyle e di fare una più intensa preparazione fisica nella off-season: “Ha fatto un ottimo lavoro fuori stagione, allenandosi in maniera professionale, come non mai”. Effettivamente, a livello psicologico, ancor prima che di gioco, l’americano sembra aver fatto dei passi avanti, traendo giovamento dalla composizione del suo nuovo, vecchio team e dal trasferimento in Texas, ad Austin: “Quando sono in Texas mi alleno spesso con Andy, mi dà degli ottimi consigli. Sono stati proprio lui e Grant a consolarmi dopo la sconfitta con Odesnik alle qualificazioni degli Australian Open, dicendomi che non avevo perso il mio talento. Una forte iniezione di fiducia per me”
ll momento per la definitiva esplosione ad alti livelli (non ad altissimi) sembra ormai arrivato, considerata l’età, il bagaglio crescente di esperienza e le recenti vittorie. Proprio così, perchè ad Acapulco, il ragazzotto della Lousiana ha dimostrato di esserci con la testa e con il fisico, di lottare anche in situazioni di estremo equilibrio. La vittoria su Dimitrov è la prima su un top ten, dopo una serie negativa di 22 insuccessi consecutivi; quella su Karlovic, è la conferma di quanto bene possa fare Harrison nel 2015. Il doppio bagel, nel secondo e terzo set, subito da Ferrer in semifinale, non è stato propriamente di buon auspicio, ma lì siamo già ad un altro livello.
Ma quali sono veramente i limiti di Harrison? Mentali, di gioco, o dovuti ad una cattiva gestione del suo talento da parte dell’USTA? Quest’ultima ipotesi sembra essere la causa più accreditata, secondo molti, ma Ryan respinge le accuse al mittente: “La sensazione è che la USTA e Jay Berger abbiano fatto tutto il possibile per aiutarmi”. A livello di colpi, di certo l’americano non è esente da imperfezioni: se infatti può contare su un ottimo servizio e su un buon dritto (che peraltro potrebbe migliorare, specie sulle palle con il taglio indietro che rimbalzano molto basse), lo stesso non può dirsi per il rovescio, colpo debole di Ryan, con cui oltre a commettere diversi errori non forzati, non riesce ad imprimere una sufficiente potenza. Il gioco di volo è ridotto all’osso, nonostante le sue caratteristiche lo richiederebbero più spesso; la rapidità del giocatore è sufficiente, nonostante la massa che farebbe predire il contrario. La sensazione è che Ryan non abbia un piano B al di là del meccanismo servizio-dritto. Insomma non un talento alla Federer, ma più che sufficiente per bazzicare stabilmente nei primi 30 del mondo (perlomeno).
Il problema più grosso di Harrison sembra essere quello psicologico; il ragazzo ha dato prova, anche nelle interviste, di soffrire tremendamente la pressione a cui la nazione lo sottopone da quando era un adolescente, e questo non ha portato effetti positivi sul suo gioco: “Sono sempre stato ossessionato dagli articoli e dai servizi su di me. Ho sperato che questi parlassero bene di me e del mio gioco, ma troppo spesso mi sono concentrato solo sui commenti negativi; sono stato troppo insicuro di me stesso. Spero che la gente capisca che sto per fare delle ottime cose”.
L’obiettivo per Ryan, è sempre quello massimo, il numero uno del mondo, ma il segreto per arrivare ad un traguardo così elevato, è ragionare passo dopo passo, per valutare le reali aspirazioni che un giocatore può avere. I tempi sembrano maturi, il tennista anche a giudicare dalle sue parole: “Se gioco male, se perdo, imparo dalla sconfitta. Sono certo che arriverò al mio obiettivo, non so se in due mesi o in un anno ma ci arriverò e allora mi divertirò”. Presuntuose o meno, le parole di Harrison sono quelle di un giocatore che ci crede: il tennis americano aspetta solo lui, per non passare da futura promessa a talento mai sbocciato, il 2015 è l’anno della verità.