Il 22 marzo Lea Pericoli festeggerà a Roma i suoi 80 anni. Li riviviamo attraverso una piccola celebrazione scritta da Gianni Clerici per il quotidiano “la Repubblica”
Noi del tennis, e non solo noi, siamo stati tutti innamorati della Lea. In un paese cattolico come il nostro, è difficile sfuggire a un’immagine femminile che idealizziamo, sia quella che non oso dire, sia la mamma, sia la moglie. Insomma, l’amore. Preparandomi a scrivere una piccola celebrazione dei suoi ottant’anni, ho cominciato col telefonare a uno dei miei Editor, per informarlo. «Ottant’anni!» ha esclamato. «Ma sei sicuro? Non è che ti sbagli le date, come fai, sì insomma, da quando sei un po’ suonato. Se sei sicuro lo pubblichiamo, ci mancherebbe. Lo spazio? Per una come lei limiti non ce ne sono». Ho allora telefonato a Pietrangeli, anche lui innamorato della Lea. «Si, certo. Il compleanno si festeggia a Roma, il 22 marzo. Mi chiedi perché non l’ho sposata? Me lo sono chiesto anch’io, più di una volta. Ma eravamo sempre tutti e due così occupati…». Quanto a me, mi sono ricordato di averla vista la prima volta al torneo di Wimbledon del 1956, e di essermene subito innamorato, giovane giornalista che ero, al Giorno.
Lei aveva giusto vent’anni. Era arrivata in Italia da Addis Abeba, dov’era cresciuta, dove aveva abitato con suo Papà, un grande uomo d’affari, che il Negus, Hailé Selassie, aveva personalmente liberato dal campo di concentramento in cui si sarebbe trovato, nel 1941. A Wimbledon le tenniste indossavano ancora gonne lunghe sin quasi al ginocchio, solo le americane erano più disinvolte, con quella che si chiamava sottana-pantalone. Come Lea scese in campo si verificò un assieparsi simile a quello che avevo visto per il primo film della coetanea Sofia Loren, i fotografi che si battevano a colpi di gomito, i dirigenti in blazer imbarazzatissimi: ogni volta che Lea colpiva il suo diritto, la sottanella, già corta sino alla coscia, roteava, facendo si che la Divina, come avevo preso a chiamarla, mostrasse l’indumento sottostante, che, non fosse state tanto chic, si sarebbe potuto definire mutandine. Simile immagine lasciò tutti sconcertati, e purtroppo l’ultimo non fu Papà Pericoli, che prese a pensare che il futuro di sua figlia non fosse quello della star di un’attività ancora indefinibile quale il tennista. Fu allora che ricevette da me una lettera aperta, che ho rivisto con orgoglio negli archivi del Giorno, nella quale lo avvertivo che non si poteva mutare un destino irrinunciabile, non meno di quello di una Carla Fracci.
Oltre a me, era innamoratissimo di sua figlia il famoso coach australiano Dinny Pails, allenatore della nazionale italiana. Confuso com’era, il poveruomo cercò, come certi mariti anziani, di spingere la giovane a dei mutamenti che imitassero il suo stile, e fu questa la principale ragione per la quale la Lea fu una campionessa meno fulgida di quanto avrebbe potuto. Lea ha infatti vinto molto, ma forse meno di quanto le avrebbe consentito quel fisico da mannequin, come allora si chiamavano le top model. Dopo averle dedicato qualche dozzina di ore di una vita di spettatore riscattata solo dalla sua presenza, le ho chiesto quale dei suoi match ricordasse con più emozione, oltre alle prime partite milanesi, il titolo junior italiano del 1952, il tempo in cui si divideva tra San Siro, incapace di dimenticare il suo cavallino d’Africa, e tanto disinvolta in groppa che qualcuno provò ad offrirle la possibilità di una gara, contro autentici fantini. Forse il primo successo internazionale a Crans Montana? Forse gli ottavi di finale al Roland Garros, a soli vent’anni, che equivalevano a sedici delle attuali contemporanee, prodotte e ipersviluppate in laboratori tennistici? Non poteva dimenticare, certo, i successi su tre Number One mondiali quali Ann Haydon, Virginia Wade, e l’inventrice del femminismo tennistico, Billie Jean King. Ma anche le cinque finali romane insieme a Silvana Lazzarino, e, sempre con quella che battezzai Minnie, i tre consecutivi titoli a Montecarlo, sua città adottiva, e la supercoppa d’argento offerta da un gentiluomo dal nome indimenticabile, Lord Highlife.
Nel parlare di successi, non posso evitar di citare quel che è insolito tra gli sportivi, spesso campioni con il corpo in tradizionale opposizione alla mente. Come ebbe terminato di assemblare i 27 titoli italiani, Lea prese a scrivere, anticipando due attività spesso in contrasto quale giornalismo scritto e parlato. Iniziò, con la Lettera 22, alla Notte, per essere notata da quel genio di Montanelli, che forse se ne innamorò anche lui, e passare al Giornale. Ma non solo di tennis, com’era attendibile, prese ad occuparsi. Si ritagliò una memorabile parte di giornale, sino a due pagine che disegnava, con una notorietà non inferiore a Maria Pezzi, la Number One della moda. Poiché Lea era abituata a superare match in tre set, insieme al giornalismo giunse anche la TV. Telecronache di tennis, quale primo commentatore femmina in Italia, ma anche altro, e quale altro. A Montecarlo, dove spesso soggiornava, amata dal pricipe Ranieri, iniziò un gioco chiamato Paroliamo, e, con il famoso Jocelyn, a Parigi, una Caccia al Tesoro in elicottero, anche perché, confessa ridendo, era l’unica donna ad esprimersi disinvoltamente in tre lingue. II giorno in cui Lea chiese a Montanelli di correggerle un pezzo complicato, ebbe un’inattesa risposta: «Non correggo neanche me stesso, ci mancherebbe con te. Ma perché, quando sei libera, non ci provi con un libro?». Giunse così un libro insolito, “Questa Magnifica Vita”, nel quale Lea affermava, con ininterrotti esempi, quanto sia da vivere positivamente la vita, quel che spesso dimentichiamo in una somma di contrarietà, sfortune, fastidi o semplicemente contrattempi. Seguì un volume di successo, forse non sufficiente tuttavia per la storia di un’italiana che aveva abitato una Colonia, e l’aveva amata quasi fosse la patria. Lea racconta la sua fortunata infanzia e le storie minime di quel continente, che non cessa di visitare ogni anno: un diario che, quando lo lessi e recensii, non mi trattenni dal definire addirittura simile a My Africa, di una scrittice che ebbi l’onore di conoscere, Karen Blixen. Fu poi la volta di “C’era una volta il Tennis”, una biografia della quale il nostro amico Nicola non può non essere fiero, il lungo ricordo di una affettuosa amicizia di sessantenni, forse il modo migliore di trascorrere una vita parallela. E, ingiustamente scambiato per comuni fiabe africane, un testo poetico di grande creatività, “L’Angelo Capovolto”.
Se queste righe hanno incuriosito il lettore, questi potrà chiedersi cosa faccia ora la protagonista. Oltre ad occuparsi di attività benefiche ovvie per chi, come lei, è stata vittima di non uno ma due tumori felicemente sconfitti, Lea gioca spessissimo a golf, iniziato dopo il tennis, un gioco in cui ha raggiunto l’eccellenza con un handicap di 13. Ed è stata eletta al ruolo congeniale di Madrina del nostro tennis, capace di eleganti sintesi nel consegnare le coppe dei nostri Campionati Internazionali d’Italia, a Roma, mentre il pubblico l’applaude, insieme alle vincitrici. Insomma, ne sono ancora innamorato, ed è un privilegio che mi sia stato chiesto questo articolo.