L’annuncio del probabile forfait di Roger Federer agli Internazionali d’Italia 2015 suggerisce una domanda: perché l’ex numero 1 del mondo fatica così tanto a Roma? Da Mantilla a Chardy, alle imprese sfiorate ripercorriamo il suo cammino al foro italico
Gli appassionati italiani sono stati spiazzati dalla notizia raccolta un paio di giorni fa dal nostro inviato ad Indian Wells Vanni Gibertini sulla probabile assenza di Roger Federer agli Internazionali di Roma 2015. In verità la decisione ( non definitiva da quanto traspare dalle sue parole) era nell’aria: avendo deciso di fare da traino alla prima edizione del torneo di Istanbul era evidente che lo svizzero a qualcosa dovesse rinunciare e avendo saltato lo scorso anno Madrid causa nascita dei gemellini e spesso Montecarlo, si può anche comprendere la scelta del sempre diplomatico e politically correct primatista Slam.
In fondo Federer dal 2000 ad oggi ha sempre giocato nella capitale con la sola eccezione del 2005, ma andando ad analizzare i risultati di Sua Maestà al Foro Italico emerge in tutta evidenza una piccola maledizione: in un modo o nell’altro ai tifosi italiani è stata sempre negata la versione deluxe di Roger Federer.
Sia chiaro, non che Roger abbia mancato di deliziare la platea romana con partite memorabili e colpi sublimi, ma è indubbio che nel nostro ( unico, ahinoi!) torneo il campione di Basilea è andato incontro, anche negli anni in cui perdeva un numero di partite che si contano sulle dita di una mano, a cocenti delusioni.
Eppure è difficile trovare una motivazione ambientale o tecnica. Federer è amato e venerato a Roma come in qualsiasi altra parte del globo e d’altra parte come potrebbe la città eterna vocata alla bellezza non estasiarsi dinanzi alla classe dell’elvetico? Se poi aggiungiamo che Roger è dichiaratamente tifoso della Roma e amico e sostenitore del suo capitano Francesco Totti, gli elementi per un connubio perfetto ci sono tutti.
Da un punto di vista tecnico Federer, pur non essendo Nadal, è uno che sul rosso ha vinto dieci tornei ( Roland Garros, quattro Amburgo, due Madrid, Estoril, Gstaad e Monaco di Baviera), giocato e perso altre quattro finali a Parigi ( inutile dire contro di chi), tre a Montecarlo ( due con Nadal e una con Wawrinka lo scorso anno), una ad Amburgo ( sempre Nadal quando era un 1000), una a Madrid ( Nadal) oltre alle tre di Roma di cui diremo e vanta un ottimo 76,2% di match vinti sulla terra ( 198-62, che nei soli match romani scende al 65,8 27-14). Non c’è dubbio che la terra di Roma non sia quella veloce di Madrid o Amburgo e che due set su tre Roger non abbia i margini che ha sempre avuto ( tranne ovviamente negli ultimi anni) a Parigi, ma alcune sconfitte in riva al Tevere non sono tecnicamente spiegabili soprattutto nella loro ripetitività.
La prima apparizione romana del teenager Roger Federer risale, come detto, al 2000. Lo svizzero non è fortunato nel sorteggio, al primo turno pesca un signore ucraino che solo pochi mesi prima si era trovato in vantaggio di due set e 4-4 nel terzo in finale a Parigi contro un certo Andre Agassi. Andrei Medvedev è un cagnaccio ancora troppo duro per il giovane Roger dalla chioma fluente che vince il primo set ma poi si arrende in volata nel terzo.
L’anno successivo Federer vive due autentiche battaglie nei primi turni conclusesi entrambe con la vittoria per sette punti a cinque nel tiebreak decisivo: nella prima piega lo svedese Thomas Johansson, mai a suo agio sulla terra ma di lì a poco incredibile trionfatore agli Australian Open grazie alle safinette. La seconda, vinta proprio contro lo sciagurato Marat, numero due del mondo, segna una svolta nella carriera di Roger, sino ad allora – sembra incredibile dirlo oggi – scapestrato sfasciatore di racchette, come raccontato dallo stesso svizzero ne “ Gli anni della Gloria” di Marco Keller e Simon Graf: “ Giocavo contro Safin e nelle partite con Marat facevamo a gara a chi si comportava peggio. Alla fine del secondo set, mostrarono nel maxischermo dello stadio le nostre intemperanze e mentre lo guardavo mi sono davvero vergognato e mi sono detto: non si può andare avanti in questo modo”. Al turno successivo, un altro mastino come Wayne Ferreira approfitterà della sua stanchezza battendolo in due set.
Nel 2002 Roger non è ancora Roger anche se pochi mesi prima sull’erba di Wimbledon ha detronizzato Sampras nel più simbolico passaggio di consegne e qualche giorno dopo vincerà ad Amburgo il suo primo grande torneo. A Roma lo sorprende il padrone di casa Andrea Gaudenzi, in verità non più nella fase gladiatoria della carriera ( è solo 58 al via del torneo e il declino inevitabilmente è iniziato dopo l’infortunio nella finale di Davis nel 1998 contro la Svezia). Ricorda lo scriba in “Gianni Clerici agli Internazionali d’Italia”: “ Gaudenzi ha appena battuto Roger Federer, uno che prima o poi vincerà Wimbledon”. Più prima che poi e qualche volta in più di una.
Ed eccoci al 2003 ed alla prima finale romana dello svizzero. Roger arriva a Roma da numero 5 del mondo, concede un set a Volandri nei quarti, approfitta del ritiro di Ferrero quando era nettamente avanti in semifinale e trova in finale un avversario a sorpresa. Felix Mantilla non è certamente uno sconosciuto, nel suo anno migliore, il 1998, ha raggiunto la semifinale al Roland Garros affacciandosi anche al numero 10 del mondo. Sotto 6-4 6-5 e con Kafelnikov al servizio, è ad un passo dalla sconfitta in semifinale ma riesce a ribaltare l’incontro e ad agguantare la finale. Ci arriva da numero 43 del mondo e nessuno pare dargli molte chance, anzi forse “ Soltanto la mamma, la sua fidanzata Berta, il suo allenatore Munoz, il preparatore Fejzula pensavano che quel bravo ragazzo potesse battere un tipo che ha un talento doppio, se non proprio triplo di lui” ironizza sempre Clerici. Ma tant’è, Roger si fa imbrigliare in una lotta da fondocampo, comincia a sbagliare con il rovescio e si arrende in tre set ( la finale era al meglio dei cinque) di cui il primo e il terzo lottati. “Contro Mantilla la partita diventa spesso noiosa” racconterà un presuntosetto svizzero dopo il match dimostrando di aver imparato presto ad essere un cattivo perdente ( il che per la verità diventerà una virtù). Puntuale arriva la bacchettata di Gianni Clerici: “ E’ questa dello snobismo una licenza che non ci si può permettere”.
Il 2004 offre al pubblico romano una versione analoga di Federer che però inciampa nella sindrome Mantilla già al secondo turno. Albert Costa è pur sempre un campione del Roland Garros ma la sensazione che si vive sul campo è di un Federer che non abbia voglia e pazienza di soffrire. Vince il primo set poi è sempre più lontano dal campo e saluta il foro. Il problema è che questa edizione dello svizzero nel 2004 si vede solo a Roma: tre quarti di Slam e undici titoli portati a casa di cui due sulla terra. E nel 2005 Roger salterà l’appuntamento italiano.
“Io credo che nella rivalità tra Nadal e Federer abbia inciso molto la finale di Roma del 2006, dove lo spagnolo ha vinto la gara annullando due match point all’avversario. Secondo me, quel risultato ha condizionato tutta la storia delle loro sfide”. L’autorevole riflessione di Rino Tommasi ci introduce in quella che è la finale che maggiormente resta nelle menti degli appassionati romani e non solo. Il foro aveva assistito già l’anno precedente ad una finale lunghissima tra il maiorchino e Coria ma nulla di paragonabile alla qualità e al pathos che i due rivali mettono in campo. Nadal arriva in finale lasciando le briciole ai suoi avversari ( un set all’amico Moya all’esordio), Federer, che già aveva rischiato con Almagro, si salva sotto 4-2 e tre palle del 2-5 nel terzo set in semifinale con Nalbandian. Le cinque ore e cinque minuti della finale sono un saliscendi di emozioni culminate dai due match point falliti con il diritto da Federer sul 6-5 15-40 del quinto set.
Nel 2007 la maledizione del Foro torna ad abbattersi sullo svizzero che si arrende incredibilmente al miglior Filippo Volandri della carriera, seppellito da quarantaquattro errori gratuiti in diciotto giochi. “ Pensate gli sia accaduto qualcosa di intimo, una cattiva notizia da casa, una lita con la moglie-manager Mirka?” arrivò a chiedersi Gianni Clerici per giustificare la sconcertante prestazione di Federer.
Che per la verità si ripeterà l’anno successivo, stavolta nei quarti contro Radek Stepanek, un altro mai visto a quei livelli sulla terra rossa. Due set, entrambi vinti al tiebreak caratterizzati da variazioni e discese a rete che ubriacano lo svizzero. Il salto dello scorpione del ceco rimarrà nella mente dei fan di Federer che se lo pregustavano vincitore del torneo dopo la precoce eliminazione di Nadal, battuto più dalle vesciche che da Ferrero.
Nel 2009 Federer arriva a Roma tra i dubbi, devastato dalla sconfitta australiana con Nadal e senza aver vinto nessun torneo nella prima parte di stagione. Il De profundis risuona un po’ ovunque: “ Federer non è più quello di una volta”, “ Non vincerà più uno Slam”. Il torneo romano non sembra proprio scacciare i brutti pensieri: lo svizzero arriva in semifinale approfittando di un tabellone comodo, gioca uno splendido primo set contro Djokovic e va in vantaggio di un set nel secondo. Poi viene a piovere e dopo l’interruzione Roger pare letteralmente non rientrare in campo. Ma la stagione gli regalerà forse i momenti più belli della carriera.
Quando lo svizzero si presenta a Roma forte del ritrovato scettro di numero 1 del mondo nel maggio del 2010 in molti pensano che possa essere la volta buona. E invece dalla Lettonia arriva un personaggio che, ancora una volta, gioca il miglior tennis della sua vita. Ernests Gulbis farà innamorare il foro con il suo tennis e il suo atteggiamento guascone ma quando Federer risale da 3-5 nel set decisivo annullando sei match point sembra che il suo destino sia segnato. Macché, non c’è trippa per gatti svizzeri.
E lo stesso accade nel 2011 quando un redivivo Richard Gasquet imbriglia l’elvetico. Anche qui si fa fatica a ricordare una versione talmente splendente e continua del francese. Federer ovviamente ha le sue colpe: è in vantaggio di un set e di un break contro un avversario che ha sempre dominato a piacimento ( tranne in un lontano precedente monegasco) ma si fa riprendere. Il pubblico lo trascina come non mai ed impazzisce quando Roger regala persino un tweener. Ma non c’è nulla da fare, la maledizione continua.
E’ un buon Federer quello che si vede al foro invece nel 2012 e che delizia il pubblico nel match serale dei quarti lasciando tre game ad Andreas Seppi, reduce da due maratone vincenti con Isner e Wawrinka. Sembra giocare a ping pong Federer per quanto vada di fretta ed il pubblico fa quasi fatica ad incoraggiare l’azzurro. Ma è una pia illusione perché il giorno dopo lo svizzero si arrende alla solidità di Djokovic e senza una reazione di orgoglio nel secondo set il punteggio sarebbe molto severo.
Severissimo è invece il punteggio della finale del 2013, la terza giocata e persa da Federer nella città eterna. Ma il paradosso è che nella stagione peggiore della sua carriera, con la schiena a pezzi, giochi forse il miglior torneo dell’anno proprio lì dove non ha mai brillato. Il destino sembra voler ricompensare i tifosi italiani dopo anni di debacle, offrendogli un tabellone da 250. Eppure Roger soffre contro Janowicz e Paire con la schiena dolorante, ma Roma avrà la finale dei sogni. La domenica mattina gira voce che Federer darà forfait e tra gli organizzatori serpeggia il panico. Poi lo svizzero appare in campo ma è una comparsata. Ma il pubblico lo coccola e lo consola.
E arriviamo allo scorso anno dove la maledizione del foro trova la sua sublimazione. Ancora un francese, ancora un giocatore che per un giorno si erge a livelli mai più ripetuti. Federer arriva a Roma fresco della paternità bis, gioca un primo set incredibile, poi rivolge i pensieri a biberon e pannolini. Nel terzo set si desta e si arriva al tiebreak decisivo dove un doppio fallo incredibile del francese gli offre il match point. Qui si capisce perché tra Roma e Federer c’è qualcosa di misterioso: Chardy si inventa un passante dopo una corsa incredibile al limite del disumano. E per Roger Roma è ancora amara. Con il fondato timore che possa essere l’ultima volta.