Dalla stagione 2009 la WTA ha deciso di permettere l’ingresso in campo dell’allenatore durante le partite. Pro e contro dell’on court coaching.
Cincinnati, esterno sera, 18 agosto 2011.
Jankovic vs Schiavone, terzo set. Al cambio campo Schiavone si rivolge verso il suo coach (provvisorio): “Ma non dovresti aiutarmi a trovare una soluzione? Dimmi qualcosa di utile, c***o!”
Jankovic vincerà 6-4, 5-7, 6-4.
Sydney esterno notte, 13 gennaio 2015.
Kerber vs Gavrilova. La partita è cominciata dopo mezzanotte e si sta trascinando sino a un orario record. Dialogo tra Kerber e il suo coach Bejamin Ebrahimzadeh.
Ebrahimzadeh:”Credici, che puoi vincere!”
Kerber: “Va beh, ci credo”.
Ebrahimzadeh scoppia a ridere.
Kerber: “Non è divertente!”
Ebrahimzadeh (ancora ridendo): “Lo so, ma sono le tre di notte!”
Kerber: “Smettila!”
La partita finirà alle 3.10 di notte, con la vittoria di Kerber per 6-7, 7-6, 6-3.
Cincinnati esterno giorno, 20 agosto 2012.
Li Na vs Angelique Kerber, finale. Uno dei primi coaching tra Carlos Rodriguez e Li Na, insieme da pochi giorni. Li Na ha appena perso il primo set 1-6.
Rodriguez: “Non darle palle tese, perché lei ci si appoggia alla perfezione; lavora di più il colpo. Il dritto giocalo centrale con più topspin, e angola quando sei sicura di chiudere il punto”.
Li Na vince il secondo set. Coaching prima del set conclusivo:
Rodriguez: “Adesso prova ad aggiungere questa cosa: quando serve slice a uscire dovresti rispondere anche lungolinea. Se ce la fai, lei non può più andare a coprire in automatico l’incrociato, chiudendo poi facilmente con il dritto”.
Li Na vincerà 1-6, 6-3, 6-1.
Quando ho pensato a come affrontare il tema, la prima cosa che mi è venuta in mente è stata la varietà di situazioni che il coaching può offrire. Cinque anni fa invece avrei pensato subito al fatto discriminante: se essere favorevole o contrario.
Cosa significa? Forse significa che, almeno per quanto mi riguarda, il sacro isolamento della giocatrice che scende in campo sola per tutto il match, è stato in parte superato. Cinque anni di dialoghi hanno cominciato a lasciare il segno; sotto forma di piccoli momenti memorabili, ricordati perché il rapporto tra coach e giocatrice ha dato vita a situazioni curiose, inattese, divertenti; o semplicemente interessanti dal punto di vista tecnico e tattico.
Devo confessare che quando è stato introdotto, nel 2009, ero decisamente contrario. Oggi la vedo in modo diverso: non che non trovi aspetti negativi, ma mi pare che ci siano pro e contro che tendono a bilanciarsi. Ma prima di entrare nel merito, ecco un brave riepilogo di quanto stabilisce il regolamento.
“On court coaching”: le regole
La WTA ha deciso di introdurlo all‘inizio della stagione 2009. Vale per tutti i tornei gestiti direttamente dall’Associazione: significa quindi che non riguarda la Fed Cup e gli Slam (organizzati dalla ITF). In Fed Cup, infatti, il capitano può parlare ad ogni cambio campo, ma spesso fa sentire la sua presenza anche tra un punto e l’altro; negli Slam, invece, nessun contatto tra allenatore e giocatrice è consentito.
Il paragrafo H sezione XVII del regolamento 2015 WTA, stabilisce che ogni giocatrice può richiedere di parlare con il proprio coach una volta per set. In più c’è la possibilità di dialogare durante gli stop per assistenza medica o i toilet break richiesti dall’avversaria (che invece in questi casi non può parlare con il proprio coach). E anche durante i dieci minuti di pausa concessi alla fine del secondo set nelle giornate di caldo eccezionale.
Al di fuori di questi momenti, ogni comunicazione, anche solo gestuale, è vietata, ed è punita dal regolamento (paragrafo D sezione XVI).
Prima di ogni partita, la giocatrice indica una persona (e una sola) che ha diritto di entrare in campo. La persona viene identificata come coach: per questo deve vestire in modo decoroso e sedere in un luogo prestabilito delle tribune; 15 minuti prima dell’inizio del match viene dotata di un microfono che non va spento: ciò che dirà alla giocatrice potrà quindi essere trasmesso dal broadcaster televisivo che organizza l’evento; ma non potrà essere diffuso nello stadio.
Anche un’altra tennista può fungere da coach, basta che venga designata come tale prima della partita. Ecco ad esempio Roberta Vinci che consiglia Sara Errani (altri tempi e altre relazioni tra le ex compagne di doppio):
https://youtu.be/enpBXdHQkS4
Il coach può solo parlare, non può portare alcun oggetto in campo da lasciare alla giocatrice, a meno che non sia stato preventivamente autorizzato dal giudice di sedia. Non può nemmeno lasciare appunti o indicazioni scritte (ricordo a questo proposito un warning nel 2010 per l’allora coach di Kuznetsova, Loic Courteau, che non conosceva la regola).
Non ci sono vincoli di lingua: basta che si parli in modo appropriato. Infine da questa stagione è possibile avvalersi di aiuti informatici per elaborare dati e statistiche che si vogliano comunicare alla propria giocatrice.
I pro e i contro
Non è semplice affrontare il discorso, non solo perché sono tanti gli aspetti da considerare, ma anche perché i punti di vista possono essere differenti. Un conto infatti è la prospettiva delle giocatrici, un conto quella degli allenatori, un altro ancora quella degli spettatori.
Per esempio posso ipotizzare che una giocatrice con il carattere più forte e sicuro di sé abbia accolto negativamente il fatto che avversarie con la tendenza a demoralizzarsi potessero fare ricorso ad un supporto esterno. E lo stesso per chi possiede la capacità di analizzare tatticamente le diverse situazioni di gioco in modo autonomo rispetto a chi invece è un po’ meno dotata sotto questo aspetto.
Di sicuro introdurre l’on court coaching significa togliere il giocatore da quella posizione profondamente solitaria che è sempre stata una caratteristica del tennis (Coppa Davis e Fed Cup escluse).
La norma che punisce il coaching dimostra che la questione non veniva considerata marginale da chi ha codificato le regole. Secondo lo spirito originario del gioco, il tennista deve trovare dentro di sé tutte le risorse per fronteggiare l’avversario; non solo le risorse fisiche, ma anche quelle tecniche, tattiche e nervose. Uno dei sintomi più evidenti di questa situazione estrema al quale è sottoposto il giocatore è la tendenza di molti a parlare con se stessi. Soliloqui che non accadono con la stessa frequenza negli sport in cui è consentito discutere con i compagni o l’allenatore.
Al momento dell’introduzione della nuova norma, cinque anni fa, questo aspetto è stato quello più sottolineato: e proprio per il desiderio di conservare lo spirito del tennis “classico”, la maggior parte dei grandi giocatori del passato aveva espresso parere contrario.
Anche un giocatore in attività come Federer ancora di recente ha citato come un valore da preservare l’importanza del sapersela cavare da soli in ogni situazione.
Federer ha poi introdotto un altro tema che mi sembra interessante: la diseguaglianza economica. Si suppone cioè che i giocatori di vertice (più ricchi) dispongano di allenatori migliori, e che quindi in sostanza si ritrovino con un ulteriore vantaggio durante la partita nei confronti dei giocatori di rincalzo, che già si devono allenare con team più ridotti e meno professionali.
C’è poi il fatto che la regola WTA non vale per i tornei dello Slam: questo potrebbe portare alcune giocatrici a trovarsi in difficoltà proprio negli eventi più importanti, a causa della desuetudine all’esperienza della partita come avventura del tutto solitaria.
Sotto questo aspetto però, si potrebbero anche vedere le cose come un pregio. Mi spiego: nel tennis femminile manca la profonda distinzione che è determinata dai match 3 su 5 invece che 2 su 3. Il fatto che ci sia una regola che differenzia il modo di giocare i tornei WTA rispetto agli Slam mi pare tutto sommato positivo. E’ un elemento che rende i Major speciali, e giustifica ulteriormente il prestigio superiore di cui godono (anche tra le donne). A questo proposito ci sono giocatrici che modulano la presenza in campo del coach in base alla distanza dai Major: quando si avvicinano gli Slam, evitano di chiamare il coach per abituarsi alla situazione che stanno per affrontare. E c’è anche chi, come Serena Williams, semplicemente non vuole mai aiuti.
Un altro aspetto che mi pare sia da considerare a favore è che l’intervento dell’allenatore potrebbe diminuire il numero di match a senso unico, in cui una contendente tende a demoralizzarsi e a lasciare campo libero all’avversaria.
L’apertura al dialogo con il coach potrebbe anche avere in parte risarcito le giocatrici più corrette rispetto a quelle che eludevano la norma, comunicando comunque; magari arrivando perfino a litigare. Qui Marion Bartoli a Wimbledon 2011 “espelle” il padre allenatore:
Ma credo che la principale ragione dell’introduzione dell’on court coaching sia televisiva: la possibilità per il telespettatore di avere un breve spaccato della relazione tra giocatrice e allenatore. Sotto questo aspetto nei cinque anni passati si è potuto notare quanto differenti possano essere i coaching.
Senza raggiungere le situazioni un po’ estreme di Schiavone e Kerber che ho ricordato all’inizio, di sicuro si è avuta la conferma della complessità del tennis, attraverso i tanti aspetti presi in considerazione. Così capita che il coach utilizzi il tempo per suggerire aggiustamenti tecnici (ad esempio nell’esecuzione dei colpi), oppure tattici (in base alle scelte che sta operando l’avversaria), oppure psicologici (quando cerca di incitare o ricorda altre partite difficili che poi sono state vinte).
Ma questa è solo una parte della questione. La varietà non è solo nei temi, ma anche nei modi di comunicare. Ci sono giocatrici che parlano con il loro tecnico (penso ad esempio a Roberta Vinci con Francesco Cinà) e altre che invece normalmente si limitano ad ascoltare (ad esempio Sharapova o Wozniacki). Ma sarebbe sbagliato pensare che Maria e Caroline si relazionino con il coach allo stesso modo: Högstedt prima e Groeneveld oggi, si rivolgono a Sharapova in modo piuttosto formale; papà Wozniacki invece spesso sembra che sgridi la figlia (e questo è quello che sostengono coloro che capiscono il polacco, lingua con cui comunicano fra loro).
Insomma, anche sotto questo aspetto si presentano mille sfumature, che purtroppo non sempre si possono cogliere, perché a volte la lingua diventa un ostacolo insormontabile. Per quanto mi riguarda, ad esempio, da kvitoviano mi piacerebbe conoscere il ceco per capire contenuti e toni (che sembrano piuttosto leggeri) tra Kotyza e Kvitova. Ma anche la controversa relazione tra Piotr e Caroline Wozniacki mi suscita curiosità.
A volte invece proprio la totale comprensibilità dei dialoghi ha creato piccoli incidenti che hanno aggiunto un po’ di pepe nelle relazioni tra giocatrici:
https://www.youtube.com/watch?v=YaHoo59uxvA#t=0
Mentre le frasi davvero offensive, di cui si sarebbe fatto a meno, sono state pochissime:
https://www.youtube.com/watch?feature=player_detailpage&v=PAKIy78It3M#t=5
In generale, direi che l’approccio della WTA che puntava sulla trasparenza non ha provocato grossi problemi.
Dovessi decidere io, non tornerei indietro; tutto sommato penso che lo spettatore televisivo sia fondamentale per il tennis, ed è attraverso le trasmissioni che si coltiva l’interesse per uno sport antico ma che ha tanti concorrenti in crescita.
I “tradizionalisti” hanno davvero buoni argomenti; mi pare impossibile negarlo. Ma il tennis è uno sport che si evoluto nel tempo, spesso superando le resistenze al cambiamento (riducendo la durata dei match maschili, introducendo il tie-break, avvalendosi del falco per limitare gli errori dei giudici di linea, etc. etc.).
Certo, in questo modo si perde la dimensione eroica (e affascinante) della tennista completamente sola durante la partita; ma ci sono sempre gli Slam per restituirci tutto questo. E chissà che l’aiuto del coach a lungo andare non riduca il logorio mentale delle giocatrici, magari allungando la loro carriera.