Ho sempre avuto simpatia per i ragazzi di personalità. E Matteo Donati l’ha sempre avuta. In tutte le sue scelte, fin da ragazzino. Ben consigliato anche da sua madre, persona saggia ed educata, per bene, senza tanti grilli per la testa. Mi lasciò una buona impressione, tutto il clan Donati, quando Matteo non si sentì di andare a fare il pollo di allevamento e andare a Tirrenia, da dove non è mai uscito nessuno a livello di primi 150 del mondo (salvo la fugace meteora Giannessi), ma qualcuno è semmai ogni tanto invece… uscito dalle mura del Centro Tecnico in piena notte per far baldoria.
Poi, come sempre accade, una volta che un tennista ottiene con la sua equipe – si chiami Errani, Donati o Quinzi – ottiene buoni risultati, allora (ma più che legittimamente sia chiaro) la Federtennis “sale sul carro dei vincitori” e allunga proposte di…“pregiati servizi” che chiunque voglia fare il tennista professionista in Italia non può permettersi di respingere. Perché fra quelli ci sono anche benefit di vario tipo, wild card, rimborsi, convocazioni, assistenze varie.
Ha fatto bene quindi Donati ad accordarsi con la FIT, pur restando fedele al suo “coach” di Bra, Massimo Puci – lo stesso che seguiva Golubev – così come fa bene la FIT, visto che non riesce (dal 2004 a oggi) a tirar fuori nessuno di suo, a cercare di utilizzare al meglio il lavoro degli altri.
Alla fine conviene a tutti. Incluso il tennis italiano. Il fine ultimo quindi viene rispettato. Anche se all’italiana.
Del resto in tutti i campi della vita la “politica” è maestra nel fare suoi meriti non completamente propri, ma questo è sempre successo. E non si comporta così soltanto la nostra Federtennis. Anche altre, a dire il vero, lo fanno. Inclusa quella americana che ha tratto vantaggio per anni della Tennis Academy di Bollettieri come altre. Una delle poche Federtennis a tirarsi su i propri ragazzi è quella francese, brava nello scegliere con cura i coach più professionali, motivati (e ben pagati).
A casa nostra si è sempre preferito accollarsi i meriti di chi si era fatto quasi tutto per conto suo. Penso in questi anni a Sara Errani e Flavia Pennetta, emigrate in Spagna con i loro allenatori spagnoli, penso ai primi anni di Bolelli e Fognini (i cui entourages nei confronti dei pochi aiuti ricevuti erano parecchio critici, ma oggi sono diventati tutto tarallucci e vino) ma anche a Francesca Schiavone che sì, frequentò Barazzutti e un pochino Tirrenia nei mesi che precedettero il suo trionfo a Parigi 2010… e tanto bastò perché la FIT salisse in cattedra sostenendo soprattutto i propri meriti. Ovvio che quando questo accade, e il tutto viene accompagnato da soldi, automobili, ingaggi per esibizioni di vario tipo e convocazioni, i ragazzi e le ragazze un tempo “snobbati” o comunque poco coltivati, apprezzano e… calorosamente ringraziano.
Non è più il caso di far polemiche perché non conviene. Quelle le facciamo noi giornalisti quando non accettiamo di essere presi per il naso… come, ad esempio, quando la tv di Stato FIT (che peraltro sta facendo un ottimo lavoro e va detto) finge di trovarsi per caso con il suo vicedirettore (e mio ex vicedirettore!) davanti ai botteghini dove il presidente Angelo Binaghi sta per l’appunto in coda – ma che caso! – per comprarsi i biglietti come un qualsiasi ordinario aficionado sprovvisto di Santi in Paradiso.
“Sto comprando i biglietti, non costano molto, per mio padre che ha 88 anni, viene qui per la prima volta in tanti anni e resta solo due giorni”.
Così ne approfitta – grazie alla casualissima intervista assolutamente non preordinata – per indire la battaglia contro gli omaggi. “L’anno prossimo se Malagò consente li aboliremo”.
Capito? Insomma è il presidente del Coni Malagò che a quegli omaggi non vuole rinunciare, anche se alla presentazione degli Internazionali disse ridendo: “Chi vuole biglietti omaggio si rivolga non a me ma a Nicola Pietrangeli!”. E Nicola naturalmente si schernì.
Dicevo sopra che, insomma, alla fine prevale per tutti la “Realpolitik”. Inutile fare battaglie di principio. Chi ancora le fa è un …”ubidinosauro“.
Ora però è giusto tornare a Matteo Donati che a me era piaciuto tantissimo fin da quando lo avevo visto giovanissimo al torneo pasquale di Firenze, dove finisco per vedere – e non solo Rosset, Murray o Federer – tanti ragazzini che poi diventano campioni. Scrissi allora che mi era piaciuta la sua esplosività, il suo innato senso dell’anticipo e anche del rischio, tutte doti innestate su un corpo ancora gracilino.
Così mi ha fatto piacere sapere che quest’anno il ragazzo di Alessandria avesse deciso di rinunciare a tre mesi di tennis intensivo per “lavorare sul fisico, per rafforzarmi, costruirmi un po’ più di spalle, qualche muscolo in più… me lo dicevano tutti!”.
Ecco, ci vuole anche umiltà e intelligenza per seminare alla maniera giusta e poi raccogliere il seminato. È vero che può essere meno difficile lavorare sul proprio corpo, sul fisico, che non sulla tecnica, ma siamo proprio sicuri che tanti dei nostri giocatori non avrebbero potuto fare scelte anche tecniche diverse?
Lo dico fin dai tempi di Cancellotti (1984 e 1985 negli ottavi al Roland Garros) che non voleva saperne di andare a giocare sui campi veloci e si accontentava di far bene sulla terra battuta, come tanti altri suoi connazionali. Uno dei primi che si impose di seguire la sua strada “tecnica” fu Gianluca Pozzi, l’unico che andava all’estero a cercarsi i tornei sui quali il suo tennis aveva più chances. Mentre Canè scoprì di avere un tennis adatto all’erba soltanto dopo aver “rischiato” di battere Lendl a Wimbledon, ma fino a quell’anno aveva sempre fatto di tutto per evitare di andarci! Quante volte, ed invano, mi ero raccomandato a Filippo Volandri (e al suo allenatore e “padre putativo” Fabrizio Fanucci) perché andassero negli Stati Uniti dai due più grandi “tecnici” capaci di insegnare il servizio, Pete Fisher (per Sampras e anche Spadea, più la Davenport), ma anche un coach che lavorava a Saddlebrook con Rusedski e poi Capriati aveva competenze tecniche eccezionali. Naturalmente Volandri non c’è mai andato. E Sara Errani neppure. Chi volete che dia retta ad un giornalista quando ci sono in Italia e più vicino fior di professionisti che sanno il fatto loro?
Beh, qualcosa mi dice che se Donati avesse bisogno di una “consulenza” esterna al proprio coach, insieme al proprio coach la prenderebbe in esame.
Ora contro Berdych sarà molto dura, ma aver rimontato Giraldo è già stato un gran bel test. Il pubblico ha certo contribuito ad esaltarlo, ma anche a Napoli, nella finale del challenger perduto piuttosto malamente, Matteo aveva tutto il pubblico dalla sua parte, eppure l’emozione lo aveva attanagliato. Chissà che proprio quell’esperienza non sia stata utile.
Le sue risposte di rovescio, insieme ad un eccellente servizio, oggi hanno impressionato più d’uno. Leggete il pezzo di Carlo Carnevale. Io penso soltanto che forse anche lassù, un altro alessandrino d.o.c. Roberto Lombardi, avrà esultato insieme a noi. Lui, come anche Corrado Barazzutti, erano cresciuti sotto gli occhi del maestro Cornara (lo stesso che aveva scoperto un altro talento mandrogno, tal Gianni Rivera che esordì a 16 anni con la maglia dei grigi, ma poi un anno dopo con quella dei rossoneri di cui sarebbe diventato la bandiera fino… all’avvento di Berlusconi). Per la verità il tennis di Donati non mi ricorda né quello di Lombardi – anche se pure Roberto aveva un gran bel rovescio ed un tennis leggerino, per via di un fisico tutt’altro che statuario… ma Donati è quasi 25 cm più alto con il suo 1,88) né quello di “Barazza”, ultimo italiano tra i top-ten, n.7 nel ’78 e grande regolarista ma di certo più difensivo. Non era davvero un attaccante dal fondo Corrado, il corri e tira sarebbe nato negli anni anni Novanta con Agassi e soci. Non mi stupisce che dei 4 Fab Four Matteo abbia scelto come proprio modello quello che “viene scelto di meno” ma che più gli assomiglia e non solo per l’efficacia della risposta di rovescio: Andy Murray. Magari ottenesse anche la metà dei risultati dello scozzese. Intanto Matteo si goda il bagno di folla e di popolarità al Foro Italico. Anche se Tomas Berdych dovesse bastonarlo.
Intanto segnalo con grande piacere che a seguito della vittoria anch’essa piuttosto inattesa di Fabbiano sul “peperino” russo Rublev che non ha fatto che lamentarsi del campo (chissà in quali campi lui è abituato a giocare nella sua Russia!) e di quella di Arnaboldi “re del drop-shot” su Napolitano (ragazzo di Biella cresciuto praticamente insieme a Matteo Donati, i due sono molto legati e vedrete che i successi di Donati favoriranno anche quelli di Napolitano…), i giocatori italiani nel tabellone maschile degli Internazionali erano ben 8 (anche se Vanni con Almagro e Gaio con Leo Mayer hanno già perso).
Non ne avevamo avuti più così tanti dal ’93, quando furono dieci (come potete verificare se aprite in basso a Ubitennis i dati statistici relativi agli Internazionali d’Italia con tutti i tabelloni fino al 2012… Da quell’anno in poi non sono più riuscito ad aggiornarli) e cioè Furlan, Canè, Nargiso, Pozzi, Gaudenzi, Pistolesi, Cierro, Camporese, Caratti, Pescosolido.
Nel ’90 e nel’92 ne avevamo avuti 7, così come nel 2006 e nel 2014: un anno fa erano stati Volandri, Lorenzi, Seppi, Bolelli, Cecchinato, Travaglia e Fognini.
Questo lunedì si fa sul serio, non più solo sei incontri di main-draw ma 25 partite! Con 9 italiani in campo. Buon tennis a tutti, come dico anche tutti i giorni nei collegamenti su Radio Montecarlo alle 10:57 e alle 16:57.