“Cos’ha lui che io non ho?”. Non è un amante tradito quella che pronuncia queste parole. Ma sono tutti quei tennisti di vertice che continuano ad inseguire disperatamente la vittoria di un Major e che si sono dovuti guardare alla tv Stan Wawrinka scardinare quel muro umano chiamato Novak Djokovic e alzare al cielo anche il trofeo del Roland Garros, il secondo dopo quello dell’Australian Open. In Australia nel 2014 avevano pensato: “Tutta fortuna: se Nadal fosse stato al 100 per cento Wawrinka non avrebbe mai vinto in finale”. Poi gli è toccato sorbirsi anche Marin Cilic conquistare il suo primo grande slam a New York – e quello sì che a posteriori appare come un evento eccezionale. Ma mentre lo svizzero scagliava imprendibili fendenti di dritto e di rovescio da ogni angolo del campo, esprimendo un tennis da marziano e spiazzando il n.1 del mondo, ci sono alcuni protagonisti del circuito che forse hanno davvero realizzato che gli manca qualcosa per arrivare a quel livello.
Di chi si sta parlando? Restringendo il campo, sulla base delle capacità, dei margini di crescita e della classifica, si tratta di non più di sei persone: Kei Nishikori, Tomas Berdych, David Ferrer, Milos Raonic, Grigor Dimitrov e Jo-Wilfried Tsonga. Ognuno difetta di qualche elemento per ottenere il proprio posto nella storia. Ma di cosa hanno bisogno singolarmente questi giocatori per raggiungere la gloria personale e smetterla di ingoiare bocconi amari di fronte ai successi altrui?
Kei Nishikori
Una volta si diceva che l’unico ostacolo che frenava l’ascesa del giapponese erano gli infortuni. Dovendo fermarsi spesso per problemi fisici, Nishikori non riusciva a trovare la continuità necessaria (è davvero necessaria? Ditelo a Stan) per vincere i tornei che contano. Emblematica la sfortunatissima finale del Masters 1000 di Madrid dell’anno scorso, dove si è dovuto ritirare contro Nadal dopo aver dominato in lungo e in largo l’incontro. Poi sono arrivati gli Us Open in cui ha superato in successione Raonic, Wawrinka e Djokovic, prima di arrendersi ad un Cilic baciato dalle divinità del tennis. E tutti i commentatori: “Visto? Senza infortuni e con Chang a bordo campo può battere chiunque”. Quest’anno la salute ha assistito il 25enne di Shimane ma le eliminazioni nei due primi Slam della stagione sono arrivate sempre nei quarti, da Stan The Man a Melbourne e, più inaspettatamente, da Tsonga a Parigi. Quindi qual è il problema? Tecnicamente nessuno. Nishikori ha colpi al rimbalzo e gambe da fenomeno. Deficita però al servizio e nel gioco di volo e ha, inoltre, qualche problema dal punto di vista della personalità in campo. Negli incontri decisivi sembra quasi, talvolta, impaurito, timido. Al Roland Garros è finito vittima dello sciovinismo transalpino. Sono inezie, per carità, ma fanno la differenza.
Tomas Berdych
Fino al 2010 Berdych era probabilmente il beniamino del nostro tennishipster: esteticamente perfetto e capace di upset clamorosi ma, allo stesso tempo, lunatico e scostante. Poi grazie ad una straordinaria doppietta semifinale Roland Garros-finale Wimbledon ha deciso di mettere la testa a posto. Ma mai abbastanza da impensierire i cannibali di slam dei nostri tempi. 6-14 contro Roger, 4-19 contro Rafa, 2-19 contro Nole: questi gli impietosi record del ceco. Lui però non si è mai dato per vinto e gliene va dato atto. Ennesima dimostrazione di questo atteggiamento il cambio di allenatore per questa stagione, con il passaggio da Tomas Krupa a Dani Vallverdu, precedentemente noto come il compagno di merende di Andy Murray. Sono arrivati ulteriori miglioramenti soprattutto nella fase difensiva e nella solidità con i due fondamentali. Berdych si è avvicinato al top e lo si è visto quando ha messo paura a Djokovic in finale a Montecarlo. Ma sembra non essere abbastanza per vincere un Major e la doccia gelata di Parigi contro Tsonga in 3 set non sarà facile da smaltire. Anche qua i problemi tecnici e fisici sono ben pochi, se si fa eccezione per un’intrinsecamente mediocre mobilità e una propensione alla rete insufficiente per chi appunto non si muove come una gazzella da fondo. Molto più evidenti i deficit caratteriali, con quell’atteggiamento combattivo ma non troppo, fiaccato da troppe débacle rimediate da Novak, Rafa e Roger. Ci sono dei demoni da scacciare. L’età avanza e a settembre diventerà trentenne. Ma Stanimal (e non solo lui) insegna che “thirties are the new twenties” nel circuito ATP.
David Ferrer
Inserire lo spagnolo in questa rassegna potrebbe sembrare ingeneroso. Lui ha fatto il massimo, spremendo il suo fisico fino al limite dell’immaginabile e lavorando costantemente sul suo gioco che, stagione dopo stagione, è diventato sempre più completo. Sono i top 30 che si sono sempre chiesti “cos’ha lui che non abbiamo?”. Risposta: tenacia, dedizione e voglia di vincere. Non sta mollando nulla anche in questo 2015 in cui in molti addetti ai lavori lo davano logorato dalle fatiche di rimanere ad un livello che sulla carta non gli apparteneva. E invece Ferru è ancora lì a timbrare il cartellino: 36-8, 3 titoli e n.7 del ranking. Ma vincere un Grande Slam è un’altra cosa. Fuori da Nishikori in Australia e da Murray a Parigi, dove ha ottenuto la sua unica e meritatissima finale di un major nel 2013, persa con chi fa tutto quello che fa lui, ma meglio, ovvero il connazionale Rafa Nadal. Per Ferrer, che ha appena spento 33 candeline, probabilmente è opportuno parlare di problemi al passato. Anzi di un problema: nascere nell’epoca sbagliata.
Milos Raonic
Andiamo subito al dunque: il canadese ha le armi per vincere un grande Slam? Sono sufficienti un servizio straordinario (terzo per numero di aces, secondo per punti vinti con la prima, secondo per punti vinti sulla seconda, terzo per percentuale di game di servizio vinti in questa stagione) e un dritto devastante per centrare il bersaglio grosso? Al momento pare di no. Infatti fatta eccezione per Murray e Berydch, Raonic ha pessimi precedenti con tutti gli altri 5 tennisti più avanti di lui in classifica. La semifinale raggiunta l’anno scorso a Wimbledon e persa nettamente contro sua maestà Roger Federer è stata indubbiamente favorita da un tabellone benevolo. Certo è un classe 1990 e, quando è in condizione (e ciò di recente è capitato raramente), può ancora lavorare molto sul proprio tennis, grazie alla sapiente guida di Ivan Ljubicic. L’ex giocatore croato sembra che stia puntando tanto sul rafforzare ulteriormente i già menzionati punti di forza di Raonic e su un’attitudine più propositiva in campo. Tuttavia questa scelta può essere anche rivelatrice dei limiti del gigante nato in Montenegro, che con le sue leve lunghe non sarà mai in grado di reggere scambi prolungati da fondo e che dalla parte sinistra fa davvero fatica sentire la palla. Nel tennis di oggi vincere con due colpi (nel senso di servizio e dritto in quest’ordine) è un’ardua impresa. Non impossibile ma ardua.
Grigor Dimitrov
Usciamo dalla top ten e troviamo il bulgaro in piena crisi d’identità. Altro che baby Federer. Dopo un 2013 da rivelazione del tour, il 2014 negli slam è stato altalenante: quarti in Australia, primo turno in Francia, semifinale in Inghilterra (con comoda vittoria sul cugino scarso di Murray), ottavi negli States. Vabbè un comprensibile anno di assestamento in cui sono arrivate prevedibili batoste dai soliti noti: 0/4 contro la premiata ditte serbo-spagnola. Nel 2015 ci si aspettava però un Dimitrov pronto a ribaltare le gerarchie e non solo impegnato a finire negli hot shot dell’ATP e dei paparazzi. Invece sono piovute eliminazioni premature per chi ha ambizioni da n.1. L’ultima, inequivocabile, al primo turno del Roland Garros contro l’americano Jack Sock. Almeno non ha perso punti in classifica, si può consolare così. Ma ciò che desta più preoccupazione non sono tanto le sconfitte o il ranking quanto l’involuzione tecnica. Il classe 1991, che da buon predestinato ha nel suo palmares Wimbledon e Us Open Junior, appare privo di una direzione da seguire per migliorare il suo tennis. Mentre si è in parte sopperito alla leggerezza dei colpi, desta perplessità una posizione sul rettangolo di gioco che si fa via via più arretrata. Non si capisce se sia sintomatica di un’insicurezza dovuta alla poca fiducia o se sia un’idea di Roger Rasheed, suo coach dall’ottobre 2013. Guardarlo remare da dietro grida però vendetta data la sua spropositata quantità di talento. Forse c’è qualcosa da sistemare nel rovescio ma sul breve termine la priorità è recuperare la confidenza in sé stessi e nei propri (notevoli) mezzi.
Jo-Wilfried Tsonga
Obiettivamente l’unico dei quattro moschettieri francesi ad avere chance di vincere un major. Quello che c’è andato più vicino quanto meno, con all’attivo una finale Australian Open (2008), due semifinali al Roland Garros (2013 e 2015) e due consecutive a Wimbledon (2011 e 2012). Questi risultati su diverse superfici dimostrano anche la notevole capacità di adattamento del gioco potente di Tsonga. Il francese in giornata può battere chiunque e in settimana può arrivare in fondo dove vuole. La prova più recente è stata il Masters 1000 di Toronto in cui ha piegato la resistenza di Djokovic, Murray e, nella finale, Federer. Alcuni lo davano già sul viale del tramonto all’inizio dell’anno ma con un qualche eccellente prestazione sul Philippe Chatrier ha zittito i critici. Personalità forte da grandi palcoscenici che a 30 anni non si è ancora affermata sui grandi palcoscenici. Tutta colpa di un rovescio inadeguato e che non ha mai fatto troppi progressi?