Secondo una leggenda indù anticamente tutti gli uomini erano delle divinità, finché Brahma, il Principio Supremo, decise di privarli del potere divino perché troppo superbi. Così decise di nasconderlo nell’unico posto in cui l’uomo non si sarebbe spinto: non un luogo della Terra, neanche il più impervio, bensì nell’uomo stesso. Compito di ognuno dunque è quello di risvegliare questa enorme forza, chiamata Kundalini, scavando dentro di sé. E’ una bella storia, che con un po’ di fantasia potrebbe essere applicata anche allo sport, uno di quei discorsi che si fanno ai ragazzi quando iniziano a gareggiare sul serio. Peccato però che la Kundalini, ammesso che si riesca a trovarla, non basti. In India vivono più di un miliardo di persone, la maggior parte delle quali, nonostante un Pantheon tennistico apprezzabile seppur limitato, non è attratta dal tennis. In questo caso la ricerca spirituale si scontra con ostacoli più materiali: mancanza di sponsor, famiglie non sempre entusiaste, pochi modelli da emulare.
La principale ragione per cui i giocatori juniores più talentuosi abbandonano l’attività agonistica resta la mancanza di fondi. Il tennis è uno sport costoso: una racchetta da tennis decente e un paio di scarpe costano circa 20.000 rupie. Quando si gioca a livello agonistico, avere almeno due racchette e due paia di scarpe da tennis è il requisito minimo. Una cosa tanto semplice quanto fondamentale come l’incordatura costa 400 rupie, e un giocatore, in media, ha bisogno di incordare la racchetta almeno una volta al mese. Si aggiunga a tutto questo il costo relativo all’ingaggio di un allenatore e i numerosi viaggi che è necessario affrontare e ci si renderà conto di quanto l’esborso sia proibitivo.
Richa Valecha, un ex giocatore di tennis di livello nazionale proveniente dal Bengala Occidentale, lo dice chiaramente: “Essendo le spese a carico degli stessi giocatori, per la maggior parte di loro spendere somme esorbitanti di denaro per essere allenati da bravi coach o andare all’estero per giocare i tornei è una chimera. Anche se si vincono dei tornei e si tirano su un po’ di soldi, tutto finisce per essere assorbito dalle spese. La maggior parte dei giocatori professionisti in India vive alla giornata. La cosa più razionale da fare quindi è quella di abbandonare i sogni di gloria“.
Esattamente quello che ha portato Vivek Shokeen, un ex giocatore di Coppa Davis che ha raggiunto la posizione numero 26 del mondo nella classifica juniores, a smettere di giocare a tennis a poco più di 20 anni. “Allenare mi ha offerto una maggiore stabilità economica piuttosto che partecipare al Challenger Tour. Si è impossibilitati a superare un determinato livello, per cui diventa inutile continuare a spendere soldi su qualcosa che si ama ma che non si può onorare al massimo delle proprie possibilità“. Questo perché se una serie di aspetti rilevanti, come la forza fisica e mentale, sono essenziali per un giocatore di tennis, anche un adeguato ritorno economico è imprescindibile per diventare una giocatore di successo.
Un altro ex tennista, che non vuole essere nominato, ricorda: “C’è stato un momento in cui grazie alle mie vittorie riuscivo a guadagnare più di centomila rupie al mese. Ma ero costretto a spenderne molte di più solo per sostenere la mia attività agonistica. Giocando, finivo per vincere e allo stesso tempo perdere denaro. Solo una manciata di giocatori in India riesce a ottenere sponsorizzazioni, che peraltro si limitano a fornire abbigliamento e attrezzature. Si viaggia a proprie spese: a differenza degli sport di squadra, la nostra Federazione da questo punto di vista fa orecchie da mercante”.
Se non si viaggia, non si giocano abbastanza tornei. Se non si giocano abbastanza tornei, non è possibile ottenere abbastanza punti. Se non si raccolgono abbastanza punti, non si sale in classifica. Se non si scala la classifica, non si attira l’attenzione di Federazione, sponsor e tifosi.
Un altro motivo della mancata diffusione del tennis in India è dato dalla volontà delle famiglie di dare priorità all’istruzione accademica. Shweta Dawar è stato un giocatore di talento a livello giovanile che ha giocato per le università di Maharashtra e Bombay. I genitori hanno appoggiato con grande orgoglio le aspirazioni di Shweta, ma hanno insistito affinché si impegnasse anche negli studi. “In India, la gente si aspetta che tu ottenga risultati importanti da un punto di vista accademico, anche se eccelli in uno sport. Dal mio punto di vista questo ha finito per richiedere un enorme dispendio energetico, sia fisico che mentale, cosicché ho finito per abbandonare le competizioni. Questo perché, in India, scommettere sulla carriera sportiva è un grande rischio, a maggior ragione quando i tuoi genitori vogliono che tu eccella anche negli studi”.
Per i bambini talentuosi che hanno il giusto appoggio da parte della famiglia, un altro grande ostacolo si presenta sotto forma delle conseguenze dovute allo stress sia fisico che mentale. Vece Paes, insigne medico sportivo nonché padre dell’immarcescibile Leander, quando veniva chiamato in causa insisteva proprio sulla necessita di un’adeguata preparazione fisica. Il tennis è uno sport che richiede duro lavoro e perseveranza: opinione diffusa in India è che la maggior parte dei giocatori non ha grande voglia di sacrificarsi oltre il necessario.
Ashutosh Singh, che ha giocato come professionista per 10 anni, ora fa l’allenatore part time. Parlando del problema degli allenamenti, dice: “Tranne Leander Paes, Somdev Devvarman e Jeevan Nedunchezhiyan, non ho visto o sentito parlare di molti atleti, me compreso, disponibili a mettere il cuore necessario in allenamento per cercare di sfondare nel circuito. La maggior parte, passata l’euforia scatenata dai successi nel circuito juniores, finisce per perdersi. Solo in pochi scelgono di continuare con il tennis nonostante i risultati ottenuti vadano contro le loro aspettative”.
Per tutti questi motivi il tennis non è riuscito, se non a scalzare nelle preferenze degli indiani, quantomeno ad avvicinarsi a quello che è lo sport più seguito del paese: il cricket. Non che si tratti di un compito semplice: cricket in India vuol dire soldi, celebrità e una religione che tutti adorano. E’ a dir poco un’ossessione nazionale, che esclude qualsiasi altro sport.
Ad aprile, giunti in visita per promuovere il torneo per giovani tennisti “Road to Wimbledon”, Goran Ivanisevic e Tim Henman hanno avuto modo di toccare con mano la grande popolarità del cricket in India vista la concomitanza con l’inizio dell’ottava stagione della Indian Premier League (IPL).
I due hanno scoperto l’ossessione per questo sport durante la loro permanenza in città come Calcutta, Chandigarh, Delhi e Mumbai, dove hanno tenuto dei clinic. “Ci sono molti grandi atleti che giocano a cricket, la sfida per il tennis è quella di riuscire a suscitare la stessa passione. Purtroppo in India il resto degli sport non è tenuto in grande considerazione”, ha affermato Henman.
Entrambi gli ex tennisti hanno detto che lo scenario potrebbe cambiare solo se l’India riuscirà a produrre un campione in grado di vincere uno Slam, così da diventare un modello per gli aspiranti tennisti proprio come è accaduto con il cricket grazie a Sachin Tendulkar, il primo della storia a realizzare 100 centuries internazionali.
“È necessario che emerga un grande giocatore di singolare perché ci troviamo di fronte a un paese enorme che non ha bisogno di un top-50 o 100, bensì di qualcuno che entri in top 10 e sia in grado di vincere uno Slam, in modo da avvicinare i giovani al tennis. Un tennista di livello superiore. Guardate la Croazia, il mio paese: siamo una piccola nazione, ma produciamo ancora buoni giocatori di tennis “, ha detto Ivanisevic, riferendosi evidentemente a quel Cilic che (anche) grazie ai suoi consigli si è imposto negli ultimi Us Open.
Guardare oltre i successi nel doppio di Leander Paes e Sania Mirza: l’obiettivo è quello di avere giocatori top 10 nel singolare se si vuole che il tennis diventi popolare nel paese. Henman ha rincarato la dose: “Gli indiani non sono abbastanza validi in singolare. Paes lo era (ha vinto una medaglia di bronzo ad Atlanta e il titolo a Newport nel ’98, n.d.r.) ma ha scelto di concentrarsi sul doppio mentre gli attuali doppisti non sono abbastanza bravi per giocare in singolare. Devono migliorare in tutti gli aspetti. Bisogna sviluppare capacità fisiche e mentali adeguate per fronteggiare la pressione nel tennis“.
Non è la prima volta che Henman viene spedito in India nell’ambito del “Road to Wimbledon”. L’anno scorso, al posto del giocatore che lo sconfisse in semifinale sui prati londinesi rimontandogli uno svantaggio di 2 set a 1, c’era Dan Bloxham, capo allenatore dell’All England Club. Bloxham in quella circostanza pose l’accento sulla struttura fisica degli indiani: “Gli indiani non sono adatti fisicamente a giocare un tennis muscolare. Non devono giocare come Serena Williams perché non sono costruiti come lei. In compenso sono dotati di buona tempistica e splendide mani: grazie alle loro abilità naturali possono contrastare il power tennis che si è ormai imposto a livello mondiale. Devono cercare maggiormente gli angoli del campo, giocare vicino alle righe. Devi variare il gioco se vuoi vincere contro chi è più alto e più potente di te, non assecondare il ritmo del tuo avversario”.
Il modello a cui si riferiva Bloxham non poteva che ispirarsi a quel Leander Paes che a Parigi, superando il primo turno, ha colto la vittoria in doppio numero 700: una carriera coronata da 55 titoli comprensivi di 8 Slam che diventano 15 se si considerano anche quelli del doppio misto, l’ultimo dei quali vinto in Australia in coppia con Martina Hingis alla veneranda età di 41 anni. Una carriera costellata di successi, di ulteriore visibilità grazie alla partecipazione in un film (il thriller di Bollywood “Rajdhani Express”) e di polemiche, come quando si rifiutò di partecipare alle Olimpiadi di Londra perché non voleva far coppia con il modesto Vishnu Vardan. In quel caso fu iscritto al doppio misto con una Sania Mirza a sua volta risentita per essere stata trattata, parole sue, “come esca per cercare di calmare uno dei simboli scontenti del tennis indiano”.
Sania Mirza, al pari di Paes, può essere considerata la migliore interprete del tennis indiano degli ultimi decenni. Dopo numerosi interventi al polso, l’anno scorso ha abbandonato definitivamente la carriera di singolarista rendendo nota la sua decisione subito dopo il Masters di doppio vinto a Singapore con Cara Black. Attuale detentrice del primo posto del ranking, in carriera ha vinto finora 26 titoli, cui si aggiungono le 3 vittorie Slam nel doppio misto a Melbourne, Parigi e New York. Molto attiva nella lotta per i diritti delle donne, lei che era stata minacciata di una fatwa perché accusata di indossare nelle gare vestiti troppo succinti, ha destato scalpore quando nel 2010 è convolata a nozze con Shoaib Malik, ex-capitano della squadra pakistana di cricket: un matrimonio che ha rischiato seriamente di creare un incidente diplomatico prima che i futuri sposi accettassero di dirsi di sì… due volte, una per ogni cerimonia celebrata in ognuno dei due paesi.
Nonostante interpreti di grande personalità sia fuori che dentro il campo da gioco come Paes e Mirza, ma anche Rohan Bopanna, a lungo compagno di doppio del pakistano Aisam-ul-Haq Qureshi a dispetto della rivalità tra i due paesi, la mancanza di un top player in grado di imporsi nel singolare ha frenato l’entusiasmo degli indiani nei confronti di uno sport che negli anni recenti ha visto emergere protagonisti provenienti da paesi infinitamente meno popolati come Svizzera, Serbia, Belgio, Cipro, Romania, Danimarca. Il rischio è quello che il tennis nel paese diventi un gigantesco cane, anzi una tigre, che si morde la coda: l’assenza di sponsorizzazioni, la preparazione fisica inadeguata e lo scetticismo che accompagna la carriera agonistica contribuiscono ad allontanare i giovani da uno sport visto come sfuggente e dispendioso e a spingerli verso il cricket e alle sue promesse di soldi e popolarità. Così facendo però difficilmente si assisterà allo scoccare di quella tanto agognata scintilla invocata da Henman e Ivanisevic, in grado di incendiare il circuito e portare entusiasmo in un paese di 1,252 miliardi di persone.