Non ricordo la data ma ricordo l’anno di quel Wimbledon e gli anni miei. Wimbledon di anni ne compiva 124, io lentamente veleggiavo verso i 15, perciò ne avevo da imparare. Adolescente di razza pura, vivevo abbracciato alla mia unica racchetta. Le ragazze che vedevo con maggior piacere si chiamavano Steffi Graf, Monica Seles e Gabriela Sabatini e il tennis andava ancora in chiaro su Tele+. Oggi, di tutte queste cose, l’ultima è quella alla quale mi sembra più difficile credere.
Quel Wimbledon lì, quello del 1991, stava andando alla grande: un po’ di timore (immotivato) al primo turno con Rosset, gli specialisti Pate e Van Rensburg passati facili, un doveroso omaggio a McEnroe negli ottavi. Poi un match così così ma ancora zero set persi contro un terraiolo imbucatosi nei quarti, Thierry Champion: roba di quando i terraioli facevano ancora i terraioli e non pretendevano di dominare il mondo.
In semifinale ci toccava un emergente. Uno che però emergeva anche da una stesa subita in Davis da Camporese quattro mesi prima e che sempre contro Camporese aveva rischiato in quel torneo. Scusatemi se per il momento simulo la “suspense” e faccio finta di non ricordarne il nome, ma per me, alla sua vigilia, quella semifinale era quasi trasparente. Io già miravo a Becker; io già volevo Becker in finale. Anche per togliermi un sassolino dalla scarpa perché il mio amico “beckeriano” del circolo si era trastullato troppo dopo la recente vittoria in Australia. Ci avevano messi sotto negli slam, eppure ero tranquillo. Per come stavamo giocando quel Wimbledon là, anche se eravamo 5 a 4 per Becker, al servizio c’era Stefan Edberg.
Insomma, togliti di mezzo Michael Stich. Togliti di mezzo da questa semifinale che invisibile non sei. Scansati che quel plantigrado mezzo albino non lo riesco a scorgere bene in finale, mentre solleva il piatto per il secondo posto. “Edberg batte Becker”. Meglio delle trombe del paradiso. L’unica frase che per me a 14 anni suonava meglio dei Nirvana.
A discolpa di tutto questo facile ottimismo va detto che all’epoca di tennis in Tv non se ne vedeva tanto. Gli Slam, Roma, la Davis e poc’altro. Poi era tutto Televideo pagina 245 (“altri sport”) che prima ancora dello zuppone di latte mi informava al mattino come stavano andando Indian Wells o Cincinnati. Forse sarò scusato allora per non aver capito che quel chiodo lungo lungo, dagli incisivi coniglieschi e il taglio di capelli da monaco francescano, nei 100 giorni successivi alla sconfitta contro Camporese, aveva messo su un servizio da paura, una prima volée tagliuzzata sotto e tanta cattiveria in corpo.
Che ci potevo fare? Io ero sereno, avevo le mie categorie. Per me, sull’erba, si poteva perdere solo da Becker: e questo solo come evenienza astratta, non come concreta possibilità. Avevo studiato logica in quei tempi; venivo da un sofferto primo anno di liceo.
Stefan Edberg, il mio fratello maggiore, quello che serviva come me, era il numero uno del mondo. Serviva come me perché in battuta, per amore, io mi accartocciavo sulle anche imitandone il movimento e, per tributo, seguivo la pallina che usciva da quel mio obbrobrio fino alla rete: io, dotato dell’altezza di un puffo tendente a uno snorky. Ma eravamo numeri uno del mondo, e c’eravamo arrivati insieme, partendo dalle retrovie di pochi anni prima. Più o meno da quando avevo intuito che Henri Leconte era fra tutti il miglior vigneto, ma che era capace di produrre giusto un paio di bottiglie l’anno. C’eravamo arrivati insieme. Lui in campo, io fra Tv e Televideo. Ed ora eravamo sull’erba di Londra dove numeri uno lo eravamo sempre stati.
E stava iniziando la semifinale. Parte alta del tabellone. Io in camera di mia sorella. Io troppo snob per avere un Tv in camera mia e troppo altruista per sequestrare quello del soggiorno ai miei. Luglio, finestre aperte, odore di polvere estiva. Racconto quel che ricordo del match.
Già, il match.
Nel primo set otteniamo il break. Nessuna sofferenza nei nostri turni di battuta. Fin qui siamo al ricordo più o meno nitido, poi partono le immagini. Il passante che ci diede il break è un vecchio sogno. Immagini. Il simbolo dei tre triangoli Fischer sulla racchetta di Stich. Stefan con i capelli ancora reduci dagli anni ’80, un filo lunghi e cotonati. Immagini. La maglietta Adidas con fantasia indaco e giallo limone e di quella di Stich troppo somigliante a quella di Michael Chang in una certa finale di due anni prima. Immagini di un altro Michael, ancora un Michael.
Il sole, ricordo il sole: tre ore e passa di sole su Londra, un evento. Certo che ‘sto tedesco serve proprio bene. E non è vero che è senza dritto. Stefan non riesce più a rispondergli basso. Quello arriva a rete in un batter di ciglia, sembra servire dalla propria metà campo, forse ha persino il tempo di aggiustarsi i pantaloncini tra il servizio e la volée. Il secondo set non può che andare al tie break.
E tie break, si sa, è una lotteria. Tie break si può anche perdere. E tie break si perde.
Sia chiaro: mai pensato di vincere Wimbledon senza perdere un set. Ovviamente mai prima del 2006. Quindi ci poteva stare. Saremmo arrivati in finale in 4 set. Anzi, ci stava bene la partita tirata per carburare un po’ di più, per familiarizzare con le bordate crucche. In vista di Becker. Solo Becker. Aspettaci, Becker.
Nuovo set. Lui sul nostro servizio (quello che facciamo “u-gua-le”) continua a non vederla. Ma il break non arriva. In compenso arriva l’ansia ed inizio a tifare. Anzi, inizio a farneticare preghiere: “Dio fammi entrare in Michael Stich per un quarto d’ora. E se non un quarto d’ora, almeno su una palla break, giusto il tempo di sparare un doppio fallo nel Royal Box, una seconda che sembri un tappo di champagne”. Macché. Questo mio desiderio, invero ricorrente, non è stato mai esaudito. Ci hanno fatto persino un film su questa mia fantasia, ma non mi è noto nessun tennista di nome John Malkovich .
Ancora in parità, mentre Stich si ostina a restare se stesso e cancella i nostri faticati break points. Tie break. Ancora. Beh, stavolta tie break si deve vincere, penso. Tie break a te, tie break a me, tie break al figlio del re. Tie break con due punti persi per due smash sbagliati. Penso agli addominali bruciati nel sole australiano l’anno prima, e se ci penso io ci pensa anche Stefan. Tie break si perde.
Che si sarebbe arrivati al terzo tie break, a quello del quarto set, oramai lo sapevano persino le palline. Anche quando fummo noi a rischiare sul servizio. I telecronisti scandivano il punteggio in multipli di 15 e vantaggi, ma per noi già si procedeva contando dall’uno al sette. Sapevamo che si sarebbe arrivati ancora al tie break, perché da un lato ci sembrava assurdo che qualcuno potesse batterci, ed al contempo ci sembrava impossibile vincere quella partita. Eravamo nel giusto di un tennis giocato meglio persino del bel tennis di controparte, eppure conoscendo l’ineluttabile approdo di quel quarto set, e avendo visto i due precedenti, eravamo pronti ad esserne travolti, sommersi. Strenuamente perseguivamo un’idea del “giusto per quanto inutile”. Vastervik, in Svezia, e Napoli, vicino Napoli: città gemelle, accomunate nel fatalismo.
Contro le partite stregate c’è poco da invocare. Un’interruzione per pioggia. La clemenza dell’avversario. Le interviste degli allenatori del pallone che hanno perso 3-0 ma che “meritavano di vincere”. Quando tirammo fuori l’ultima risposta e Stich alzò le braccia al cielo, fu bello stringergli la mano. Significava basta ingiustizie per quel giorno, e che non avremmo dovuto giocare un altro tie break.
Dopo il match. Esattamente un minuto e 24 anni dopo.
Nella mia stanza il silenzio salì come nebbia. Rimasero le voci della tv, ignorate per ore, che riaffioravano perché io mi aggrappassi ad esse, e dicevano che Stefan Edberg aveva perso la partita senza cedere il servizio. Parlavano di più punti fatti, di infinite occasioni sprecate. Malgrado riponessi in loro la fiducia di un figlio verso due padri, Tommasi e Clerici non seppero spiegarmi perché era appena successo quel che era successo. Ci provavano, per amor di Dio. Tommasi, affranto, ci provava col pugilato e diceva che ai punti avrebbe vinto Edberg. Clerici forse ricordava che era successo anche a Tilden nel ’36 o a Drobny nel ‘51. Io, senza ragione, carico di rabbia cortese, cercavo di veicolare il flusso di “perché?” che mi frullavano in testa in una qualsiasi direzione che non fosse il cerchio, e trovai come unico sbocco quello di giurare odio eterno (ed immeritato) a Michael Stich. Scusami tanto Michael, ma all’epoca amavo le soluzioni facili.
Delle ore successive, come un po’ di tutto, ho scarsa memoria. Ricordo il mio mutismo scambiato dai miei genitori per ribellione adolescenziale. Ricordo la voglia di scendere in campo l’indomani, di giocare io per la vendetta e la giustizia, di scendere a rete persino sulla terza palla del mio servizio giocato “u-gua-le” allo scopo di ripristinare i valori in campo. Le cose ingiuste. Avevamo giocato meglio ed avevamo perso. Il mio pensiero era in orbita attorno a questo paradosso. Persino il “beckeriano”, il lunedì al circolo, riconobbe che Edberg meritava di vincere, ma forse solo per sviare la discussione dal fatto che Stich aveva sfondato il suo amato in finale.
L’adolescenza, la crescita, è fatta di tappe. La vita, mi si perdoni il pontificare poco tennistico, è tutta svolte secche ed angoli retti. Uno sbarbato 14enne, fanatico di tennis e di Stefan Edberg, di famiglia perbene e senza alcun vero problema, aveva così il suo primo, personale, impatto con qualcosa di violentemente “ingiusto”. Ingiustizia soggettiva, quella sulla pelle. L’unica che prima della maturità, e del ricambio ormonale, lo sbarbato di cui sopra poteva avvertire.
Ci saremmo rifatti due mesi dopo agli US Open asfaltando Courier (“giustizia!”). Avremmo gridato giustizia ancora a New York l’anno dopo, con il tennis ormai a pagamento ed io tre ore dinanzi al segnale criptato di Tele+, capace dopo un’ora di assuefazione persino di riconoscere il gioco tra le righe psichedeliche del mio televisore.
E però l’angolo era stato svoltato. Una fitta tennistica per lungo tempo si sarebbe riaccesa a sprazzi nel mio immaginario. Quel giorno, ditemi voi che giorno era, ce ne eravamo andati via dal centrale di Wimbledon senza una spiegazione. L’attendemmo a lungo, dopo ogni partita persa, ma come tante altre spiegazioni essa non arrivò mai. Giovani età, giovani drammi. Questo sì che l’ho compreso. A 14 anni, l’ingiustizia, erano tre tie break.
Agostino Nigro