Non c’è dubbio che le settimane a cavallo tra la fine della primavera e l’inizio dell’estate siano le più intense dell’anno per il tennishipster, figura multiforme e perciò ossimorica, le cui gesta abbiamo imparato ad apprezzare nell’ultimo Roland Garros. Quando tutti programmano le vacanze, infatti, lui programma con oculatezza il piano migliore per seguire il maggior numero di partite. Perché gli Slam occupano solo otto delle cinquantadue settimane solari, ma quattro di queste sono compresse in uno spazio inferiore a due mesi. Ed è per questo che ci si deve organizzare con un certo metodo, così come i tennisti devono prepararsi per il passaggio dalla polverosa terra rossa alla scivolosa erba verde.
Finito un Roland Garros in cui ha vinto a sorpresa un vecchio pallino che ormai da due anni ha intrapreso quell’ingloriosa via che porta al successo (il tennishipster, però, ancora si commuove nel vedere quel violento rovescio lungolinea e sospira ricordando tutte le tribolazioni passate di Stan), il provvido calendario regala al nostro fanatico non due bensì tre settimane di tornei sull’erba. Ed è con i lucciconi agli occhi che ha visto nuovamente trionfare a ‘s-Hertogenbosch – e di nuovo da qualificato: tripudio! – il prediletto, anacronistico e spettinatissimo Nicolas Mahut. Quando l’All England Lawn Tennis Club ha ricompensato questo monumento di un tennis tanto bello quanto perdente con una wild-card per il torneo più prestigioso del mondo, il tennishipster non ha potuto che constatare che giustizia era stata fatta, almeno questa volta.
Dato che Londra non è Parigi, alla domenica non si gioca, e questo priva il tennishipster di quel piacere così intenso di potersi svegliare la domenica mattina e di godersi un po’ di buon tennis mentre fa colazione e riflette sul momento migliore per prendere la rituale aspirina. La domenica prima di Wimbledon, invece, il tennishipster non può trovare scusa per saltare il rituale brunch sotto casa – tanto ormai sono tutti uguali – ed è così che, sconsolato mentre ordina una banale omelette con un succo d’arancia fresco, il nostro attende febbrilmente che venga rilasciato l’Order Of Play.
Momento di pura estasi per il tennishipster, l’analisi del primo Order of Play è un’operazione che va portata avanti con un certo rigore. Per godere appieno di questo piacere così raffinato – cioè l’attesa del piacere stesso – non bisogna farsi prendere dalla frenesia di cercare subito i match più ghiotti. Occorre, invece, studiare attentamente il documento (partendo ovviamente dal basso, dove c’è il programma dei campi periferici) per non perdersi nulla. Il primo turno di uno Slam, si sa, è un ruscello che va setacciato per bene. Ma se il lavoro viene eseguito in maniera corretta, l’oro che vi si trova è di inestimabile valore.
Nella selva di primi turni che valgono la pena di essere visti, bisogna saper selezionare. C’è Liam Broady che porta al quinto quel matto di Marinko Matosevic e poi c’è il giovane Chung contro Pierre-Hugues Herbert. Non hanno molti anni di differenza, eppure Herbert sembra quasi un veterano tanto è fedele nell’applicare i vecchi schemi che l’erba consigliava, mentre il suo giovanissimo avversario rimane incollato alla riga di fondo e quando si avvicina alla rete pare quasi scottarsi. Ma Wimbledon è bello anche perché la logica del tennis va a farsi benedire. E così, nonostante Chung sembri già a suo agio sulla lunga distanza e ci si aspetta che il tennis leggero di Herbert prima o poi vacilli per crollare sul più bello, sono invece i cinque anni in più del francese a prevalere al diciottesimo game dell’ultimo set. Chung lascia, così come Kokkinakis, mentre Alexander Zverev, che non aveva mai giocato in uno Slam ma che un anno fa si conquistava i titoli dei giornali (e dire che nessuno ascoltava il profetico tennishipster, che a inizio torneo aveva predetto grandi cose per il nanerottolo tedesco), debutta con un quinto set alla distanza e lo vince pure, 9-7 contro Gabashvili. Questi giovani, si dice il tennishipster un po’ sconsolato, giocano a tennis in maniera così seria che tanto vale seguire i più vecchi.
E del resto, ad un appassionato di tennis vintage quale ogni tennishipster è, non poteva sfuggire il primo turno tra Lleyton Hewitt e Jarkko Nieminen. Per ovvie ragioni, il nostro non ha mai potuto amare l’australiano: bi-campione Slam, numero 1 più giovane della storia e un palmarés che solo gli infortuni sono riusciti a limitare sono un bagaglio troppo ingombrante per ottenere un perdono. Eppure, proprio in virtù di questi infortuni, il tennishipster non può empatizzare con questo tennista così cocciuto, che non si rifiuta di mollare nonostante da tempo il fisico gli abbia mandato messaggi inequivocabile. E poi lo sa che Hewitt giocherà quello che potrebbe essere il suo ultimo match a Wimbledon sul glorioso campo numero due. Non se lo può perdere per nulla al mondo. Il finlandese, dal canto suo, è uno di quei tennisti che il nostro fanatico non ha mai potuto odiare. Un po’ perché sono in troppi a sbagliare il suo nome, un po’ per quel suo tennis così balordo e disordinato, espressione di una personalità – il tennishipster ne è sicuro – che varrebbe la pena conoscere.
La poesia del match sta tutta nel fatto che entrambi hanno già detto basta e l’anno prossimo, di questi tempi, staranno a commentare in tv i loro ex-colleghi di circuito oppure si staranno godendo un Margarita mentre fanno riposare le loro anchilosate membra, fiaccate dai tanti anni in giro per il mondo. Hewitt, che a Wimbledon ha vinto un titolo, è quello più in difficoltà mentre Nieminen, mai oltre ai quarti, gioca più sciolto. Il gap di classe e di tigna si vede tutto nei piccoli dettagli: come quella irreale volée che si inventa nel quinto set (e quando sennò?) e che fa alzare in piedi tutto il pubblico, tennishipster compreso, ça va sans dire. Dovrebbe tifare per Nieminen, eppure sta dalla parte di Hewitt: perché? Forse perché il tennishipster non amava l’australiano quando era sulla cresta dell’onda ma ora, dieci anni dopo, lui è ancora lì, anche se la cresta dell’onda non l’ha più rivista e ora tutti sembrano essersi dimenticati del suo passato. Sebbene sia andato molto oltre ogni soglia di vittoria che si possa concedere ai severi parametri imposti dall’etica del tennishipster, non si può non ammirare chi non si arrende allo scorrere del tempo. Il tempo passa per tutti ed è un giudice tanto severo quanto imparziale. Vale per Hewitt e vale per il tennishipster, nonostante tutte le centrifughe biologiche di zucchine, zenzero e scorza di lime che trangugia ogni sabato pomeriggio.
È ovvio che sia Hewitt a perdere e, pur avendolo tifato in questo quinto set così emozionante, il tennishispter si sente comunque appagato dallo spettacolo. È con un brivido che assiste all’uscita di scena di un tennismainstream che ha portato con orgoglio e sofferenza la croce di un fisico cigolante, incapace di sopportare l’evolversi rapido e folle di un tennis sempre più potente e più veloce. Più veloce anche di quelle gambe che quasi non le vedevi dieci anni fa e che oggi, dopo tante battaglie troppo simili a questa, non sembrano più potere andare avanti per molto. Il tennishispter non sa se le rivedrà ai prossimi US Open ma certamente sarà sulla Rod Laver Arena quando quell’arrugginito campione dirà addio per davvero. E pazienza se accadrà su un centrale, ogni tanto bisogna a scendere a patti anche con la propria morale, non solo con il diavolo.