Quel tweener là, al tennishipster, è venuto a noia fin da subito. Bene, bravo, boxino su Repubblica, ma alla terza condivisione su Facebook scatta la damnatio memoriae. È fatto così, ogni volta che un colpo di un tennista diventa così virale da debordare addirittura tra coloro che non seguono il tennis (talmente inconsapevoli della loro ignoranza da suscitare tenerezza), il tennishipster alza il suo livello di snobismo e si rifugia nel suo mondo dorato fatto di tennisti con ranking a tre cifre e nomi dalla grafia ostica. Dustin Brown, tanto per dire un nome a caso, non fa al caso suo: la sua vittoria ad Halle dello scorso anno l’aveva ampiamente prevista e poi i fricchettoni sono passati di moda quarant’anni fa. Mentre tutti si sbalordiscono, si spellano le mani e si lustrano gli occhi, il tenace tennishipster continua nella sua opera di valorizzazione dei tennisti dimenticati dal grande pubblico. È uno sporco lavoro, ma qualcuno lo deve pur fare.
Ma prima ancora di dedicarsi agli sconosciuti che tutti fanno finta di aver già visto giocare e che da lunedì prossimo saranno irremidiabilmente finiti nell’oblio, c’è da tributare ancora una volta la resistenza dei tennisti vintage, categoria che il tennishipster sta imparando ad apprezzare giorno dopo giorno. I primi giorni di Wimbledon sono i giorni dell’autunno tennistico, anche se le temperature fanno sudare un po’ tutti, pure il tennishipster che è costretto ad aumentare la sua razione quotidiana di centrifughe che compra al mercatino bio prima di andare al lavoro. Mentre sta ascoltando l’ultimo album di Sufjan Stevens – che proprio oggi compie 40 anni: il tennishipster inorridisce notando quanto la sua fama si sia diffusa negli ultimi tempi – c’è un quasi quarantenne che scende in campo contro il colosso di Rodi: Tommy Haas e Milos Raonic, accomunati dal miglior risultato a Wimbledon e nient’altro. La leggiadria dei movimenti del tedesco contro le sgraziate falcate del canadese, la pesantezza degli anni di Tommy contro la leggerezza della gioventù di Milos: è un match che potrebbe andare addirittura sul Centrale, ma per fortuna Raonic non ha ancora un blasone tale da giustificare un simile scempio.
Nei primi due set Raonic si accanisce su Haas come il fisico ha fatto per troppo tempo contro questo tennista baciato dalla sfortuna. Su quattordici game il tedesco ne vince due e il tennishipster, vaccinato alle débâcle dei suoi prediletti, sospira mentre pensa che forse non rivedrà più quel meraviglioso rovescio a una mano sui campi di Church Road. Poi, però, succede qualcosa. Come in una visione di Dale Cooper, il gigante si intorpidisce mentre il nanetto comincia a ballare una musica che sente solo lui. La luce si concentra solo su Haas e per un’ora e mezza si torna al 2009. Vince il tie-break del terzo, non senza annullare dei match point, naturalmente, e per poco non minaccia di portarla al quinto. Ma sarebbe troppa grazia, anche per Wimbledon, e alla fine il GGG torna ad imporre la sua legge fatta di articoli a 240 chilometri orari. Troppa velocità anche per uno che continua a sfuggire alle logiche del tempo come Haas. Ma se il tennishipster lo conosce bene, l’anno prossimo sarà ancora lì a riprovarci.
Scollinata la settimana – giova ricordare che lo Slam del tennishipster, tranne rarissimi e salvifici casi, dura lo spazio di sei giorni, sette se il Major ha la sana abitudine di allungare uno dei primi tre turni – il tennishipster deve decidere a chi dedicare le sue attenzioni. Il programma della prima parte di giornata, eccetto James Ward (la cui passione per gli outfit eccentrici è castrata dai rigidi canoni della morale wimbledoniana), non riserva grandi partite. Ma alle tre, poco dopo il terzo Nespresso nell’arco di cinque ore, scendono in campo Feliciano López e Nikoloz Basilashvili. Quella folta barba e quel cognome da star del cinema sovietico non possono che suscitare simpatia nel nostro fanatico. Ed è così che si ritrova a tifare per un tennista dalla cui parte non si siederà forse mai nessuno: l’identikit perfetto per entrare nella riserva naturale dei prediletti. Non ha un buon servizio, né un fondamentale speciale, né un gioco brillante. Corre molto e sbaglia poco, ecco tutto. Di là Feliciano fa quello che fa sempre e nonostante sembri impossibile che il georgiano più forte di sempre possa competere con il quarto spagnolo più forte del 2015, c’è battaglia. Basilashvili vince il primo e López pareggia; si prende il terzo e López lo raggiunge ancora. Il tennishipster, che normalmente supporta chi gioca il tennis più perdente, dovrebbe stare dalla parte dello spagnolo. Ma oggi non può esaltarsi per il serve and volley seriale: quel trottolino proveniente dalle qualificazioni, arrivato dalla Georgia dopo aver viaggiato per chissà quanti Future, si merita un’altra partita. Il quinto set è una battaglia di nervi e quelli del georgiano, che non aveva mai vinto una partita in uno Slam prima dell’altro ieri e nel circuito maggiore ha vinto la bellezza di due partite, reggono meglio. Le vittorie diventano tre con quella di oggi. E López, a fine match, finisce per ammettere candidamente che non sapeva praticamente nulla del suo avversario. Il tennishipster sorride malignamente: prima o poi ogni tennismainstream finisce per rimpiangere di non aver svolto quel duro lavoro filologico che precede ogni Slam.