Tra i tanti, troppi, luoghi comuni che girano attorno al torneo di Wimbledon, quello sui suoi silenzi pare particolarmente lontano dal vero. Nonostante sia diventato proverbiale, forse più di quello delle cattedrali (che poi anche quelle…) il “silenzio di Wimbledon” appartiene più alla mitologia sapientemente costruita nei decenni, che alla realtà. Il club, situato in una delle zone più ricche di Londra, nei 15 giorni – anzi 13 – del torneo diventa qualcosa che somiglia di più al Gran Bazar di Istanbul che ad un luogo dove affettati gentleman si scambiano signorili scambi in candida tenuta. Al punto che se qualcosa in effetti sorprende è il sinistro stridere dell’effimera eleganza persino degli steward incaricati di controllare i biglietti e i pass all’ingresso con il brusìo continuo e incontrollato di quanti si sono sottoposti a fatiche enormi per arrivare ai piedi del tempio.
Giustamente svaccati, con gli occhi cerchiati, mani pieni di borse e alimenti nelle sacche – perché è davvero impresa da ricchi sopravvivere ai prezzi che si trovano dell’interno dell’All England Club – questi ragazzi, queste ragazze, questi signori di mezza età, insomma tutte le generazioni che si ammassano ai cancelli, qualche minuto dopo saranno dentro ai courts, e lì, dopo l’attimo di smarrimento di prammatica, si adegueranno alle abitudini locali. Che a differenza di quanto si possa credere non sono poi tanto diverse da quelli di altri campi in altri club di altre città. Le persone mangiano, parlano tra loro, tifano facendo i gridolini, e Dio non voglia che ci sia qualche inglese in campo, perché la trasformazione in curva sud è immediata. Per non parlare delle urla che arrivano dalla Henmann Hill o dai viali e che penetrano fin dentro ai campi, soprattutto quelli laterali.
Quest’anno gli spettatori hanno pensato di aggiungere ad un vasto repertorio fatto di chiamate su palle dubbie, ovazioni a scambio in corso, applausi sugli errori dei tennisti, due new entry: i “buuu” se i tennisti fanno qualcosa che non gli piace o semplicemente non si decidono a perdere contro il tennista britannico e – davvero sorprendente – le risate durante gli scambi, i rallies come dicono qui.
Non che abbiano tutti i torti, intendiamoci. Alcune partite sono così noiose che o ci si addormenta, come è capitato a qualche inviato dai paesi dell’estremo oriente in tribuna stampa o a qualche invitato nei palchi riservati agli sponsor, oppure la si butta sul ridere, all’ennesimo scambio che si ripete sempre uguale. Perché non solo le urla di Maria Sharapova – vero strazio per delle orecchie appena normali – o quelle di Serena e Azarenka -che pareva facessero a gara a chi urla di più – sono motivo di risatina, ma tutto: i nastri, il falco, sempre applaudito per motivi francamente misteriosi, il giudice di linea colpito dalla botta centrale del Karlovic di turno.
Quindi va bene Wimbledon, il tempio, la tradizione e le fragole. Ed è giusto che gli appassionati non vedano l’ora di compiere il loro viaggio alla Mecca del tennis almeno una volta nella vita. Ma una volta superato l’impatto, che tendiamo a vivere come l’immaginazione ci suggerisce in anni e anni di visioni davanti ad un video, sarà il caso di guardare in faccia la triste realtà: è tennis, non è il caso di esagerare.