Dopo diverse stagioni difficili, in cui le sorelle Williams emergevano solitarie, il tennis femminile statunitense sembra di nuovo avere recuperato la capacità di proporre giocatrici interessanti.
Quattro-cinque anni fa si era avuta l’impressione che la USTA (la federazione americana) non sapesse più formare tenniste di alto livello: nessuna giocatrice attorno ai vent’anni riusciva a superare il muro del 50mo posto, tanto che ci si cominciava a domandare se la crisi non fosse determinata da condizioni strutturali della società americana, condizioni che sembravano penalizzare il tennis rispetto ad altri sport nel reclutamento dei migliori talenti.
Direi che la questione rimane aperta per il tennis maschile, ma per quanto riguarda le donne, il peggio è passato. E se non credo si possa pretendere di trovare eredi del livello straordinario di Venus e Serena, di sicuro ci sono tante tenniste di qualità in tutte le fasce di età, sia a livello junior che tra le giovani professioniste.
Non credo sia un caso, ad esempio, che nell’ultimo torneo di Wimbledon siano approdate ai quarti di finale tre americane (Serena Williams, Keys, Vandeweghe).
La meno attesa delle tre era senza dubbio CoCo Vandeweghe: fuori dalle teste di serie, a Londra è però riuscita a raggiungere un posto tra le prime otto malgrado il tabellone proibitivo: Schmiedlova, Pliskova, Stosur, Safarova; l’ha fermata solo Sharapova al terzo set, in quella che sarebbe poi diventata la partita più lunga del torneo (2 ore e 46 minuti).
Tra le giovani americane emergenti CoCo è la più anziana: è nata nel dicembre del 1991 a New York (ma da bambina si è trasferita in California, dove ha sempre vissuto), e quindi ha ormai 23 anni compiuti. Forse parlare di giovani a 23 anni comincia ad essere eccessivo, ma personalmente tendo ad essere piuttosto elastico sulla valutazione dell’età delle giocatrici: i tempi di maturazione variano da persona a persona e credo che si debbano approfondire gli aspetti specifici di ognuna per capire a che punto si possono considerare nello sviluppo della carriera.
Nel caso di Vandeweghe penso che si debba tenere conto di alcune particolarità. A cominciare dall’età nella quale ha iniziato a giocare a tennis: 11 anni. Infatti ci si è dedicata dopo avere provato altri sport, come il basket e la lotta (da bambina gareggiava nella stessa categoria di peso del fratello maggiore, ma la madre aveva evitato che si incontrassero perché, secondo CoCo, sapeva che il fratello sarebbe stato “assolutamente distrutto” da lei).
Non solo aveva iniziato tardi rispetto alla media, ma da junior aveva disputato una carriera limitata. Pochi match nei tornei ITF internazionali, tanto che solo alla soglia dei 17 anni, aveva ottenuto una wild card per misurarsi nello Slam di casa; erano gli US Open 2008. E a New York, senza essere testa di serie, aveva vinto il torneo senza perdere un set. Una sorpresa assoluta, rimasta senza un seguito, dato che quello sarebbe stato l’ultimo torneo disputato tra le ragazze.
Sorpresa di sicuro, ma sarebbe sbagliato pensare a CoCo come a una sconosciuta diventata famosa in quell’occasione, visto che il suo cognome non poteva certo passare inosservato.
Vandeweghe è infatti il nome di una dinastia di sportivi americani celebri. Il nonno Ernie è stato un giocatore di basket professionista negli anni ’50 a New York. Lo zio Kiki (figlio di Ernie) è stato una stella NBA degli anni 80-90, che ha giocato a Denver, Portland, New York prima di chiudere in California.
La mamma Tauna, sorella di Kiki, ha partecipato alle Olimpiadi addirittura in due sport: come nuotatrice a Montreal 1976 e come pallavolista a Los Angeles 1984. E se questo non basta, uno zio dei Vandeweghe, Mel Hutchins, era stato a sua volta cestista professionistico di successo, anche lui da All-star game; compagno di squadra di Ernie, che poi aveva sposato la sorella.
CoCo in realtà si chiama Colleen (come la nonna Colleen Hutchins, Miss America nel 1952, la moglie di Ernie e sorella di Mel), ma lei stessa ha spiegato perché tutti la chiamano CoCo: ”Mia madre è figlia degli anni ’60 e tutti in famiglia ci chiamiamo con soprannomi invece che con i nomi ufficiali: e così il mio fratello maggiore è Beau, il minore Crash, e la mia sorella minore Honnie”.
Nel 2008 il cognome famoso la rendeva pronta per le copertine ma non ne faceva certo una giocatrice fatta e finita: anzi, di lei spiccavano le qualità come i difetti; i grandi colpi come i grandi limiti.
La prima grande qualità è sempre stato il servizio: un colpo di livello superiore, caricato moltissimo di gambe (in questo mi ricorda Boris Becker, o Sabine Lisicki), grazie alle quali si genera la potenza che ne fa uno dei più veloci in assoluto del circuito.
L’altro punto di forza del suo gioco era, ed è, il dritto: un movimento forse non bellissimo, con uno swing un po’ macchinoso, ma quello era il colpo a cui affidava la naturale conclusione degli scambi di cui prendeva il controllo grazie alla battuta.
CoCo è sempre stata meno sicura di rovescio e con una generale difficoltà negli spostamenti in campo. Non che il suo potenziale atletico fosse disastroso, ma il problema con cui ha dovuto misurarsi nei primi anni di carriera professionistica è stato il sovrappeso.
Tutto questo la rendeva una giocatrice poco solida sul piano del palleggio, per cui contro di lei spesso poteva essere sufficiente allungare lo scambio per farla sbagliare e avere la meglio. A questo proposito aveva fatto scalpore un match del 2013 a Bruxelles in cui Vandeweghe aveva accusato (via Twitter) Yulia Putintseva di mancanza di sportività perché l’aveva apostrofata “come una giocatrice terribile, solo servizio”. Il dialogo si sarebbe svolto alla fine della partita persa da CoCo contro Yulia, e questo sarebbe stato il commento ricevuto al momento della (mancata) stretta di mano:
Her exact words were "You are a terrible player only serve. I win all the rallies" that comment is totally uncalled for…
— CoCo Vandeweghe (@CoCoVandey) May 20, 2013
Il condizionale è d’obbligo perchè Putintseva da parte sua aveva smentito, sempre via Twitter:
@WillLebeau of course i didnt!I won a match why would i say that?:DShe didnt shake my hand and said that im terrible and ridiculous player:p
— Yulia Putintseva (@PutintsevaYulia) May 21, 2013
Che sia accaduto o meno, il dialogo era sintomatico di una situazione di disagio che richiedeva un cambiamento. Il New Tork Times individua il punto di svolta nella sconfitta subita all’inizio del 2014 nelle qualificazioni di Acapulco contro la numero 171 Risa Ozaki. Vandeweghe si sarebbe detta che non poteva andare avanti così.
Non so se quel match sia stato davvero determinante o se semplicemente CoCo sia riuscita a trovare un migliore equilibrio derivato dalla maturità umana o professionale; in sostanza, i fatti ci dicono che realmente nelle ultime due stagioni Vandeweghe è riuscita a perdere peso, curando con molta più attenzione la preparazione fisica. Se non ricordo male, quando lo stesso problema era emerso per Taylor Townsend, CoCo ne aveva parlato come una questione molto più difficile da risolvere di quello che molti potrebbero pensare.
E sino a tutto il 2013 questo è stato un handicap serio, che a mio avviso l’aveva limitata molto, e che una volta tenuto sotto controllo spiega molti dei progressi dell’ultimo periodo. Nel gennaio del 2014 era 110 del ranking, a fine stagione numero 40.
Poi c’è la questione caratteriale. A me agli inizi aveva dato l’impressione di essere una giocatrice misurata, che tendeva a stare ai margini del match sul piano agonistico. Se penso alle partite di Coco che avevo seguito nei primi anni di circuito, devo dire che la ricordo piuttosto tranquilla in campo. Invece ultimamente è diventata molto più tosta.
I ricordi recenti sono caratterizzati da diverse racchette spaccate, frequenti lamentele con gli arbitri e anche qualche situazione in cui ha probabilmente passato il limite. Ad esempio l’anno scorso quando aveva perso a Wimbledon da Smitkova ed era uscita dal campo senza stringere la mano al giudice di sedia; il tutto a causa di un paio di chiamate contestate (il campo era senza hawk-eye) che però a me erano parse del tutto fisiologiche in un match senza il falco.
Oppure quest’anno, quando ha avuto una polemica con l’arbitro Eva Asderaki nel corso del match contro Sharapova: prima ha chiesto alla giudice di sedia di richiamare Maria (per movimenti scorretti in fase di attesa alla risposta), poi è tornata alla carica dicendo che avrebbe potuto parlare lei stessa direttamente a Sharapova, visto che Asderaki non aveva il coraggio. E poi ha ribadito le accuse di scarsa sportività nei confronti di Sharapova in conferenza stampa.
Insomma, sembra si stia avviando a diventare una delle giocatrici più difficili da gestire del circuito. Se raffrontata alle impressioni dei primi anni, devo dire che per me è stata una sorpresa, ma forse questi atteggiamenti recenti sembrano sposarsi meglio con il carattere di quella bambina che faceva wrestling e si sentiva pronta per “distruggere assolutamente” il fratello se l’avesse incontrato. Oggi CoCo è una giocatrice con un forte spirito agonistico e lo dimostra a pieno in campo. Che piaccia o meno, probabilmente adesso esprime se stessa in modo più rispondente alla sua natura.
Ma non credo che i cambiamenti fisici e caratteriali bastino da soli a spiegare il quarto di finale a Wimbledon. A Londra a mio avviso ci sono stati anche importante progressi tecnici.
Innanzitutto in risposta: ha risposto per tutto il torneo piuttosto bene di rovescio, e così ha disinnescato una delle soluzioni tattiche che le sue avversarie probabilmente pensavano di avere contro di lei. I miglioramenti in risposta si sono tramutati in un maggior numero di scambi in cui prendere il controllo del palleggio, rimanendo su un terreno più adatto alle sue caratteristiche fisico-tecniche.
A questo ha aggiunto un drastico calo degli errori gratuiti e maggiore efficacia nelle volèe. In sostanza è risultata una giocatrice più aggressiva e incisiva nei turni di risposta, e in generale più solida nel palleggio. Un progresso che, unito ai suoi tradizionali punti di forza, le ha consentito di arrivare tra le prime otto in uno Slam, di eliminare una top ten come Safarova e di sconfiggere una giocatrice considerata come una delle possibili sorprese per la vittoria finale come Karolina Pliskova.
In questo momento ha eguagliato il suo best ranking (numero 32), diventando la quarta giocatrice statunitense in classifica dopo Serena, Venus e Keys.
L’erba è probabilmente la superficie migliore per il suo gioco (in carriera ha vinto il suo unico torneo WTA nel 2014 a ‘sHertogenbosch), ma la stagione sui prati dura poche settimane. Nei prossimi mesi si capirà se l’impresa di Wimbledon è stato un exploit episodico, determinato da due settimane di forma eccezionale, o il sintomo di un progresso più stabile e duraturo: e se così fosse, potrebbe ritagliarsi un ruolo di rilievo anche nei prossimi tornei sul cemento americano.