Folley M., Borg vs McEnroe, la più grande rivalità del tennis moderno, Effepi libri, 2006
E’ estate, su un campo da tennis di erba consunta due uomini si danno battaglia senza esclusione di colpi.
Da una parte un artista con la fascetta rossa come i capelli usa la sua Wilson Jack Kramer Pro Staff marrone e avorio come un pennello, disegnando con la pallina bianca nell’aria traiettorie che solo lui vede. Oltre il nastro della rete un re vichingo, ieratico come un maestro Jedi, non suda neanche mentre a colpi di spada laser difende il suo trono sorretto da una forza mentale ai limiti dell’impossibile.
Il 6 luglio del 1980 nella terra natale del gioco due campioni disputano cinque set di tennis perfetto.
Bjorn Borg, “l’orso del castello” secondo la traduzione letterale dallo svedese, gioca da fondocampo e non sbaglia mai. John McEnroe, mancino newyorkese, vive perennemente in equilibrio sul nastro della rete.
Per Platone quei due sarebbero stati l’esempio migliore del Mito delle metà e forse l’avrebbe riscritto così: “In cielo, nel mondo delle idee, gli dei del olimpici erano gelosi di questo essere perfetto, capace di palleggiare in eterno e allo stesso tempo di coprire la rete con la velocità di Hèrmes. Quando costui umiliò Zeus stesso tre set a zero, per la rabbia lo spaccarono in due e scagliarono i pezzi il più lontano possibile uno dall’altro. Il primo precipitò in Europa, l’altro in America. Da allora le due metà si cercarono senza requie e finalmente, nella terra promessa del tennis, si riconobbero”.
Chi ebbe la ventura di assistere conserva chiara la sensazione di essersi trovato al cospetto del Sovrumano.
In quel giorno d’estate ho sostenuto Bjorn disperatamente per l’ultima volta prima di abbandonarlo per McEnroe. Compiere questo passo è stato un rito di passaggio, come uscire di casa e andare solo nel mondo. Con Bjorn non avevi mai dubbi, la certezza della vittoria era una coperta calda che ti faceva perdere di vista il fatto fondamentale dello sport, il dramma della competizione, la lotta a coltello, il prevalere dell’uno sull’altro. Tifare McEnroe invece era come perdersi in uno di quei labirinti del luna park fatti di vetro e legno, vedi spesso l’uscita, e certe volte è lì a portata di mano, ma può anche capitarti di non raggiungerla mai.
L’autore utilizza una delle più grandi finali di Wimbledon mai disputate come chiave di volta per accompagnarci nel decennio che trasportò definitivamente il tennis nell’età moderna e lo fa attraverso il racconto di una rivalità epica, leale e affascinante, scolpita ormai nella storia del gioco.
Difesa contro attacco, ghiaccio contro fuoco, talento atletico contro fantasia, ascia bipenne contro fioretto… e potremmo continuare a lungo con dicotomie e metafore legate ai quattordici incontri fra i due (ovviamente sette per parte il bilancio). La descrizione appassionata di quell’incontro costituisce solo la punta dell’iceberg ma è sotto il pelo dell’acqua che troviamo il vero senso di queste pagine.
Le parole di miti consacrati come Nastase, “Borg gioca come l’uomo del banco dei pegni”, Peter Fleming, “Junior (McEnroe) ha sempre capito il gioco meglio e prima degli altri” o Mariana Simionescu, “Non è che Bjorn e io dormissimo molto quell’anno a Wimbledon…”, si uniscono ad un coro di numerose altre voci che raccontano i loro Borg e Mac. Sentiamo il direttore di Wimbledon sir Brian Burnett, che nel 1938 partecipò come navigatore al record di volo aereo senza scalo, 7.158 miglia da Ismailia in Egitto fino all’isola di Darwin in Australia, dire di essersi pentito di non aver mai squalificato John per il suo comportamento.
Mister Bradnam, maestro di tennis del Cumberland Club, il circolo londinese dove Borg si preparava ai Championships senza mai tagliarsi la barba per scaramanzia, racconta invece che nei primi giorni di allenamento Bjorn giocava così male sull’erba che molti soci erano convinti di poterlo battere, ma anche di come abbia brigato e lottato per anni prima di riuscire a posizionare la sua foto accanto a quella dello svedese nel Wall of Glory del club (“per stare appeso al fianco di Borg ho dovuto spostare più di settantotto fotografie. Ormai è come se la mia foto fosse incollata al muro).
Uno dei grandi pregi di questo libro è l’aderenza della narrazione alla realtà perché Malcolm Folley, autore di biografie attente e particolari come quella dedicata al triplista e uomo di Dio Johnatan Edwards o alla tennista Hana Mandlikova, e’ un giornalista anglosassone che conosce a fondo il suo mestiere e ha girato il mondo per raccogliere e registrare fedelmente le parole e i ricordi di chiunque sia stato in qualche modo testimone diretto di quell’epoca dorata. Nella stesura del testo si serve di un approccio che si potrebbe definire a buon titolo verghiano-verista, lasciando cioè che siano i fatti e le parole stesse dei protagonisti a far sgorgare in modo fluido i contorni e i vivi colori di un periodo forse irripetibile nella storia del gioco.
La narrazione procede per salti spazio-temporali alternando fabula e intreccio e abbracciando il periodo migliore della carriera dei due. Le impressioni sono forti e rimangono incise profondamente nella memoria di chi legge. Borg che esordisce in Davis sconfiggendo in cinque set il neozelandese Onny Parun, uno che a causa di un danno permanente ai tendini del collo giocava stringendo fra i denti una corda fissata alla maglietta.
La morte assurda del grande Gerulaitis, il funerale descritto da John Lloyd, celebre come “signor Evert” quando sposò Chris, con Borg catatonico, Mac che singhiozza cone un bambino e Jimmy Connors che pronuncia un breve elogio funebre e aiuta a portare la bara.
O ancora Bjorn che senza una parola scappa prima della premiazione dal sottopassaggio del centrale di Flushing Meadows dopo essere stato dominato da Mac nella finale del 1981.
Sarà di fatto, a soli venticinque anni, il suo addio al tennis sulle orme di un’altra eterna icona svedese che stregò il pianeta prima di scomparire dalle scene, la divina Greta Garbo.
Mac scrive che da quel momento il gioco per lui non fu più lo stesso.
Del resto le due metà della perfezione non possono mai sentirsi realizzate l’una senza l’altra.
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