A 17 anni e 4 mesi, Michael Chang vinceva il Roland Garros, disputando 18 set, dagli ottavi alla finale. Resisteva quattro ore in campo contro un atleta “monstre” chiamato Ivan Lendl; piegava un “Noah diversamente abile” ma fisicamente simile di nome Agenor; smontava un trattore sovietico da piano quinquennale (al secolo Chesnokov) ed in finale, ora tergicristallo ora satiro folleggiante, mulinò per tre ore e mezza le gambotte fino a battere un certo Stefan Edberg. Senza barba, senza baffi, e non solo per i caratteri orientali. Non aveva molta barba neanche il 17enne Boris Becker, quando iniziò a servire ad una velocità all’epoca inesplorata conquistando Wimbledon nel 1985 e nel 1986. E a dire il vero ne aveva poca anche quando lo vinse per l’ultima volta alla veneranda età di 21 anni, nel 1989. Buon per lei, di barba non ne avrebbe mai avuta Martina Hingis, numero 1 del mondo a 16 anni o Jennifer Capriati, vincitrice di una medaglia olimpica a Barcellona all’età in cui generalmente la medaglia la porta a casa una ginnasta o una precoce nuotatrice. Tutto questo sul nostro stesso pianeta, ma circa venti anni fa.
L’attualità parla invece di un numero 1 del mondo che spegne 28 candeline. Di un numero 2 (che a febbraio di quest’anno gli ha dato due set a zero), con quattro figli e quasi 34 primavere. Di Ivo Karlovic che ha vinto un torneo Atp alla rispettabile età di 36 anni, facendo meglio di un certo Jimmy Connors. Di tale Victor Estrella Burgos, nome da marca di birra messicana, oggi invece titolato (e per la prima volta) a 34 anni. Di Feliciano Lopez che a 33 anni fa il suo best ranking e di David Ferrer (sempre “dica 33”) che nel mese di febbraio era già al terzo titolo stagionale, un po’ come quegli studenti secchioni che a due mesi dall’esame avevano già finito la terza ripetizione. L’età media dei vincitori dei nove master 1000 disputati nel 2014 è stata di 28,8 anni. Il più anziano vincitore di un master 1000 nel 1994 è stato Boris Becker, all’epoca 27enne. La media? Un imbarazzante 22,8. Sul versante femminile (“non si chiedono gli anni alle donne” è un detto che inizia ad essere appropriato…) Serena Williams colleziona slam a 33 anni, la Schiavone vince uno slam a 30 anni e l’anno dopo fa finale, mentre la classe 1987 (Sharapova, Ivanovic, Petkovic, Safarova, Errani) non cede un solo passo.
Un indizio è un indizio. Due fanno una prova. Tutti questi, ora esposti, formano una regola. E vedendo i tentennamenti dei ventenni del circuito, beh, questa regola pare non conoscere eccezioni. Ci sarà una ragione. Ci deve essere una ragione per cui il tennis mondiale sembra diventato l’Italia meridionale, che a trentacinque anni sei ancora “nu guaglione”. Come è possibile che l’età media dei tennisti di vertice si sia alzata così, all’improvviso, di circa sei anni? Il fatto è che se lo chiedono tutti; poi vedono Federer ancora in campo a 34, un fenomeno come Djokovic che non dà segni di usura, e smettono di chiederselo limitandosi a godersi lo spettacolo. È la logica del “risultato”, intesa in termini di spettacolo, che molto spesso giustifica anche il rifiuto dei meccanismi e delle sue cause. Provare a chiedersi il perché, non avendo il sottoscritto particolari cognizioni di fisiologia se non quelle sperimentate sul campo dei propri anni, richiede tentativi. Teorie logiche più che scientifiche. Raffronti comparati. In poche parole, presunzione, ma da qualche parte si dovrà pure iniziare.
Prima ipotesi, quella della “generazione di fenomeni”.
Arrendiamoci, noi e le nostre istanze moderniste. Giocano in questo periodo storico tre tennisti che insieme fanno 40 titoli dello slam. Non c’è trippa per gatti scozzesi, giapponesi, bulgari e canadesi. Djokovic, Federer e Nadal (ordine alfabetico e di ranking attuale) sono un’eccezione, unica nella storia, e sono capaci di vincere anche quando l’età li rende meno scattanti, meno agili, meno qualsiasi cosa. L’elevazione del famoso baricentro anagrafico, le sue cause, secondo questa ipotesi, vanno rinvenute nel fatto che vincono sempre loro, e che sempre loro hanno come unico difetto quello di invecchiare. Insomma, l’età non c’entra molto: son talmente baciati dagli Dei, che possono vincere anche passati i 27-28 anni. L’età che un tempo significava “vecchiaia” nel tennis, lo significa ancora, ma questi tre sono talmente superiori da poter vincere anche se meno atletici, meno giovani e scattanti.
Ipotesi scartata. Se è vero che l’età peggiora la performance atletica (e lo è) così come lo scarso allenamento, basta vedere come cambia il gioco dei tre se non al 100% della condizione. Su Nadal si è già detto tutto negli ultimi mesi: senza adeguata forma fisica si fatica a riconoscerlo. Anche Djokovic se si rilassa, come ha fatto dopo Wimbledon 2014 e la nascita del bebé, stecca nei due 1000 americani estivi e fa mezza stecca a New York. Quanto a Federer, la differenza magari si nota di meno, ma se la schiena lo limita in allenamento, poi ti arriva l’annus horribilis del 2013 o il match di Lione in Davis contro Monfils. La condizione atletica, per quei tre, conta. Conta e conta assai. Come per tutti. Perché l’ipotesi della “generazione di fenomeni” non giustifica Ferrer e Wawrinka, Estrella Burgos e Lopez che migliorano a trent’anni. Né dovremmo far notare come Serena Williams a stento tenga la racchetta in mano quando non in gran forma (ma riconoscere anche che la stessa è attrice di sicuro talento). Tesi scartata: i fenomeni ci sono, è vero. Ma non vincono solo loro e non invecchiano da soli.
Seconda ipotesi (e maggioritaria in dottrina). Miglioramento, con gli anni, della condizione atletica, dovuto al perfezionamento delle tecniche e dello stile di vita dei giocatori.
Si dice: oggi sono migliorati gli allenamenti, la scienza dell’alimentazione, i rimedi fisioterapici. Djokovic ha scoperto che il glutine non lo digerisce (ma non conosce il nocino che fa mia madre) Murray predilige il tipico piatto scozzese, sushi e sashimi. Nadal assume plasma neanche fosse un vampiro Cullen della saga di Twilight. Ricordate (una volta… cosa resterà di quegli anni ’80) quando il proprio idolo vinceva uno slam? Ringraziava in ordine sparso, l’allenatore per nome, Dio, i fans e gli sponsor. Oggi invece ci si congratula per primi con il proprio team “for the great job” e persino con il team del finalista “for the incredible effort”, team composti da fisioterapisti, dietisti, Cotorri vari ed assortiti. Tutto vero. Sono stati i vari Borg, Lendl, Courier, gli spagnoli degli anni ’90 a far comprendere che la racchetta magari non pesa quanto un bilanciere, il campo non sarà grande come quello del cricket, ma (buon Dio!) si tratta pur sempre di uno sport, non di un gioco da fare dopo il bridge o la visita alla Contessa Serpelloni.
Ed oggi che tutti lo sanno, nessuno più sgarra a tavola o ai party Atp, e l’ultimo dei “vivi” lo rimpiangiamo più per la sua diversa vitalità che non per una certa semifinale in Australia nel 2005, mentre i suoi eredi Gulbis e Tomic si permettono persino di farci rabbia. Tutto vero. Tutto oggettivo. Tutto, persino, scientifico. Ma talmente scientifico ed universale da non essere la soluzione che stiamo cercando. Perché oramai tutti, dai 15 anni in poi, lavorano in palestra, sul campo, con la dieta, l’integrazione, ed a gennaio sono tirati a lucido come capita alla mia auto una volta ogni due anni. Sono tutti professionalizzati, tutti attenti, tutti eterodiretti da chi in loro non solo crede, ma anche investe denari. Non c’è apprezzabile differenza tra la preparazione atletica di un professionista ventenne e quella di un trentenne, semplicemente perché il ventenne, quando non innova in meglio, almeno imita. E se una differenza ci può essere, essa consiste nel fatto che un ventenne si allena come un forsennato e l’indomani è fresco, mentre un trentenne no. Legge deduttiva: se alla stessa fonte si abbeverano tutti, la differenza sta altrove.
Proprio andando altrove e facendo un breve cenno agli altri sport, personalmente non noto alcun cambiamento nel rapporto età/prestazione. Nel calcio si può già dire che siano pochi gli ultra trentenni degni delle prime pagine. I vincitori del pallone d’oro degli anni ’90 erano già tutti ultraventicinquenni tranne Ronaldo (quello vero) ed in media negli anni ’90 erano giocatori più anziani dei recenti. Nel rugby i giocatori “tre-quarti” – i più veloci e con fisici e work-rate più simili rispetto ai tennisti – conoscono da sempre il loro momento di massimo fulgore prima dei 26 anni, e pur essendo meno usurati dalle battaglie delle prime linee, si ritirano ben prima degli “avanti” e collezionano meno “caps”. Nel basket americano oramai si salta il college con la Cepu e si è addirittura spesso competitivi già a 19 anni. Nel nuoto Ian Thorpe ha provato a tornare rimediando figuracce mentre Michael Phelps ha sparato tutte le sue cartucce fino ai 24. Ho persino dato un occhiata al ranking mondiale del Badminton (e il Badminton, commosso, mi ha ringraziato per l’attenzione) sport per movimenti simile al tennis, accorgendomi che c’è un solo ultratrentenne nei primi dieci, ed un numero uno del mondo di 25 anni.
Sempre altrove, però, nel ciclismo oggi si è competitivi più a lungo. Nelle corse di un giorno gli ultratrentenni sono ancora al comando (Cancellara, Boonen, Rodriguez, Valverde). Ma se questo elemento non si discosta molto dal passato, sorprende e inquieta che a 40 anni Chris Horner abbia vinto una corsa a tappe lunga più di uno Slam (Vuelta 2013) o che Davide Rebellin, 42 anni ed una brutta squalifica per doping, abbia staccato tutti sulle rampe di San Luca, al Giro d’Emilia, lo scorso ottobre. In definitiva, no, mi spiace. I migliori regimi alimentari, di allenamento, di integrazione, possono anche avere leggermente aumentato l’età media agonistica negli altri sport. Ma non nelle quantità ciclopiche viste nel tennis. A parte il ciclismo, sul quale però pesano infiniti sospetti, non c’è un generale invecchiamento dell’età degli atleti. È roba del tennis, fenomeno esclusivamente tennistico. Appartiene al tennis, gli è proprio e caratteristico quanto l’odore delle palline appena uscite dal tubo.