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“Un vasto sistema di controllo”. Di cosa parlava Mariana Borg quando pronunciò queste parole nel 1980? Il governo totalitario della sua nativa Romania? No, in realtà si riferiva a qualcosa di ancora più universale: le superstizioni di suo marito Bjorn a Wimbledon.
Eccone una breve lista:
Indossare lo stesso outfit Fila con cui aveva vinto il titolo nel 1976; cinque anni dopo lo svedese indossava ancora la stessa maglia aderente a strisce.
Alloggiare nella stessa stanza dello stesso albergo poco lussuoso, l’Holiday Inn dell’Hampstead. Sedere sulla stessa sedia durante i cambi campo. Guidare la stessa auto, e fare la stessa identica strada di sempre, dall’hotel al club – il coach di Borg, Lennart Bergelin, non voleva che l’”Assassino Angelico” potesse essere disturbato da “qualunque inatteso imprevisto”.
Ai genitori di Borg, sempre per superstizione, era permesso di andare a vederlo giocare a Wimbledon ogni anno. E sicuramente capivano bene il figlio. Nel 1979, la madre di Borg, Margaretha, mangiava un chewing gum nel box durante la finale di cinque set che il figlio disputò contro Roscoe Tanner. La sputò, ma quando Borg perse il game subito dopo, la raccolse da terra e se la rimise in bocca. È solo una follia se non funziona, dicevano, ma quella volta funzionò. Borg alla fine vinse. Avrà sicuramente ringraziato la madre dopo.
Le superstizioni di Borg sono solo le più famose in uno sport che ne è sempre stato pieno. Richard Gasquet chiede sempre la stessa pallina dopo un punto vincente. Rafael Nadal deve avere le sue bottigliette d’acqua sempre perfettamente allineate dopo ogni cambio campo, e la linea di fondo ben pulita dalla terra rossa ogni volta che risponde. Serena Williams ha indossato lo stesso paio di calzini durante tutto un torneo. Garbiñe Muguruza ha detto di aver seguito la stessa routine e di aver mangiato sempre nello stesso ristorante dopo ogni partita durante la sua corsa verso la finale di Wimbledon di quest’anno – “Non possiamo cambiare nulla!” ha detto ridendo. L’anno scorso Jack Sock ha dichiarato al Sydney Morning Herald che, durante gli US Open del 2013, voleva entrambi i raccattapalle dietro di lui per avere da loro tre palline a testa prima di servire. “Ad un certo punto uno ne aveva quattro e l’altro due”, ha detto Sock, “e venni brekkato in quel game. Così parlai con loro per essere sicuro che avessero capito che dovevano averne tre per ognuno”.
Assurdo, vero? Ed anche stranamente complicato. Ma un campo da tennis è il luogo logico dove l’erbaccia della superstizione può prosperare, fiorire ed infine sfuggire al proprio controllo. Non ci sono molti altri luoghi in cui sei solo con i tuoi pensieri dalle due alle tre, quattro ore. Con così tanto tempo per pensare, e quindi per diventare più ansioso, cosa potresti fare se non prendere quei pensieri e trasformarli in rituali stranamente confortanti?
Strani, ma non del tutto inutili. Credere nella superstizione è, fra le altre cose, un modo di restare concentrati, cosa che nel tennis è fondamentale. Credo che limitare i pensieri al qui ed ora durante una partita, sia la cosa psicologicamente più difficile da fare. Se vinco un paio di punti consecutivi all’inizio del set, inizio immediatamente ad immaginare una vittoria per 6-0. Poi, qualche secondo dopo, inizio a preoccuparmi di poter sprecare quel grande ‘vantaggio’che avevo immaginato di avere; in realtà, e ovviamente, lo score è ancora 30-15 nel primo game. È questo processo funziona anche in maniera inversa. Se sbaglio un colpo semplice su un punto importante, questo resterà nella mia mente per i game successivi, e per i restanti set, probabilmente per anni. Riesco ancora a ricordare chiaramente quell’errore su un semplice rovescio mandato a rete su un match point quando avevo 13 anni.
Quando una cosa del genere accade oggi durante una partita, la mia mente non vaga tornando all’opportunità che ho perso. Sembra sperare di poter tornare indietro per poter avere un’altra opportunità. La volée alta che ho mandato in rete, quel dritto che non ho mai sbagliato in allenamento, ma che a volte manca quando conta: questi errori avvengono così velocemente, e restano così vividi nella mente, che senti di essere in grado di poter tornare indietro e rifare tutto. Nella tua mente la pallina è ancora lì, proprio davanti a te, che si prende gioco di te, che attende di essere schiaffeggiata per un facile vincente – immagina quanto saresti stato bene se avessi trasformato quel vincente. Solo su un campo da tennis ti accorgi di quanto finale ed irrecuperabile sia il tempo; solo su un campo da tennis provi così tanto a recuperarlo.
Quindi, meglio distrarsi da questi pensieri improduttivi assicurandoti che le tue bottigliette d’acqua puntino tutte nella stessa direzione, e di far rimbalzare la pallina il numero appropriato di volte prima di servire. Queste non sono abitudini che muoiono facilmente; queste diventano necessarie al tuo gioco tanto quanto un’affidabile seconda di servizio. Mi stupisco sempre di quante vecchie superstizioni dei miei primi anni da junior indugino ancora nella mia mente da adulto. Non prego più Dio dopo ogni singolo punto perché mi faccia vincere il successivo, come feci durante il mio primo torneo a 11 anni. Ma mi assicuro di avere sempre tre palline nel mio primo turno di servizio di un set. Mi chiedo ancora, dopo aver pronunciato lo score prima di un punto, e dopo averlo vinto, se sarebbe servito pronunciarlo ancora dopo ogni punto. E se non avesse funzionato, avrei potuto pronunciare il punteggio dopo ogni punto perso, perché forse è questo dopotutto il segreto del successo. È altrettanto importante il modo in cui rimando la pallina attraverso la rete al mio avversario mentre lui serve. Se atterrano fra la linea di servizio e la linea di fondo, è un buon segno; se atterra fra linea di servizio è la rete, non va bene. Perché, non ne ho idea, ma è una sensazione che non riesco a controllare. Fortunatamente non sento più il bisogno di rievocare la mia canzone fortunata di quando avevo 14 anni: “Roll me away” di Bob Seger. Una volta, questa terribile canzone mi venne in mente, spontaneamente, prima di un punto importante; vinsi il punto e il match, e quindi provai per anni a rievocare quella stessa magia. E probabilmente è positivo anche il fatto che non insisto più affinché il mio partner di doppio canti con me “Sympathy for the Devil” avanti e indietro per il campo mentre giochiamo. Sebbene bisogna sottolineare che questo rituale ha funzionato in un’occasione: io e il mio compagno al liceo riuscimmo a vincere un titolo nel nostro distretto mentre cantavamo l’intera canzone, partendo dal ritmo dei bonghi in apertura, nel bel mezzo degli scambi. Non ricordo come i nostri avversari reagirono sentendo due 15enni che durante i cambi campo cantavano “I shouted out,’ Who killed the Kennedys?’ when after all, it was you and me.” Ripensandoci, sembra un po’ minaccioso.
Un match di tennis ci pone in un momentaneo stato d’ansia amplificato; è come forzare il tuo sistema nervoso a levitare. Osando perdere, vai incontro al tuo destino in un modo che non ritrovi nella vita di tutti i giorni; speranze e paure sono intensificate durante tutta la durata del match. Per quanto possa suonare irrazionale, vincere significa che in qualche modo tutto è OK, e che in fondo stai bene. Timothy Gallwey, autore di ‘The Inner Game of Tennis’, si diverte a raccontare la storia di quel chirurgo che ammise di essere molto più nervoso su un campo da tennis piuttosto che in una sala operatoria. La sua performance tennistica, dopo tutto, raccontava qualcosa di lui. Non capisco perché siamo pieni di così tante superstizioni. È il nostro modo, come Borg, di cercare di controllare l’incontrollabile, il destino che abbiamo deliberatamente sfidato giocando un match in prima persona. Eppure Borg, alla fine, ha provato a controllare troppo il suo destino; quando alla fine perse a Wimbledon nel 1981, non tornò più. Tutte le sue superstizioni lo tradirono.
È bello a volte perdere quel controllo. L’altro giorno ho cercato di andare contro la tradizione e di non prendere tutte e tre le palline prima del servizio. Quando mi sono ritrovato in svantaggio 0-40, ho pensato “Oh Dio, perché non ho preso quella terza pallina? Che errore madornale!”. Poi ho vinto i successivi sei giochi.
(Traduzione di Chiara Bracco)