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Una delle maggiori eredità culturali degli anni Settanta è il movimento per la liberazione della donna. Anche il tennis aveva la sua Pasionaria: Billie Jean King (Moffitt, da nubile). Californiana di Long Beach, grandissima campionessa (a fine carriera 12 Slam in singolare e 27 fra doppio e misto, 20 allori solo a Wimbledon), cominciò a vincere appena diciassettenne sfoderando un carattere inusuale per lo sport femminile del tempo e idee chiarissime sulla strada che doveva prendere il tennis professionistico nell’era “Open”. Fino alle sue battaglie i montepremi dei tornei femminili erano molto più magri di quelli maschili. Nel mondo impazzava il Women’s Lib; lei creò quello che fu chiamato, tennisticamente, il “Women’s Lob”. Dopo avere vinto gli U.S. Open 1972 dichiarò che non li avrebbe mai più giocati fino a che i premi non fossero stati uguali. In questa cornice epocale si arriva all’episodio-chiave: il vecchio campione di Wimbledon Bobby Riggs dichiara che la donna numero uno del mondo non sarebbe capace di batterlo a 55 anni. Apriti cielo. Ci prova Margaret Court, ma perde di brutto. Allora la sfida la raccoglie la King. All’Astrodome di Houston il 20 settembre 1973 ci sono più di 30.000 spettatori e altri 50 milioni sono davanti agli schermi di 37 Paesi. Gli sponsor e la TV ne fanno un evento “all’americana” kitsch ed esagerato, ma la sostanza c’è. La King vince 6-3 6-4 6-3 quella che passerà alla storia come la Battaglia dei Sessi e niente sarà più come prima. Nasce infatti l’associazione professionistica femminile, la WTA, e i montepremi dei tornei del circuito mondiale saranno equamente divisi fra uomini e donne. E Billie Jean, intrecciando una relazione con la sua segretaria Marilyn che fece poi scandalo, chiuse il cerchio e diventò una bandiera universale del femminismo.
Franco Cervellati