La lezione di Andy Murray al cattivissimo Nick Kyrgios (Claudio Giua, repubblica.it)
L’esperto spettatore di tennis – lo stesso di cui ho resocontato ieri – non è mai spaesato o incerto, nemmeno quando alla seconda giornata del primo turno dello Slam americano deve scegliere quali seguire dei 32 match maschili e degli altrettanti femminili in programma. Può per un po’ affidarsi al caso, che magari lo fa incocciare in qualche fenomeno emergente (ieri riflettori puntati sul russo Andrey Rublev e sul tedesco Alexander Zvedev, diciassettenni biondi ed esili già noti in quanto ex numeri 1 mondiali juniores, che fanno parecchio penare Kevin Anderson e Philipp Kohlschreiber prima di cedere) o nel sovvertimento del pronostico come quando l’ex grande promessa USA Donald Young, dopo affannata rincorsa, raggiunge e rispedisce anzitempo sulla Côte d’Azur il numero 11 del mondo Gilles Simon (2-6 4-6 6-4 6-4 6-4). L’esperto spettatore può persino concedersi sprazzi di sciovinismo da tifoso e seguire da vicino un paio delle belle vittorie di Karin Knapp (6-7 6-2 6-4 inflitto alla croato-australiana Ajla Tomljanovic), di Camila Giorgi (6-3 6-3 alla svedese Johanna Larsson), di Sara Errani (6-0 6-1 alla giapponese Mayo Hibi) e di Flavia Pennetta (6-1 3-6 6-1 alla slovacco-australiana Jarmila Gajdosova).
Poi, però, il nostro ormai affaticato eroe deve concentrarsi su un’unica partita e vedersela tutta d’un fiato: non può che essere Andy Murray vs. Nick Kyrgios. Due che geograficamente e mediaticamente si posizionano agli antipodi. Tanto lo scozzese è burbero e introverso in campo e fuori quanto il ragazzo greco-malese-australiano ha atteggiamenti e reazioni plateali e scomposti che mandano in visibilio i contabili del circuito: della serie “parlatene male, ma parlatene” perché “piace ai giovani e avvicina le nuove generazioni al tennis da guardare”. Con buona pace del ruolo educativo-formativo dello sport.
L’ultimo di una serie di episodi sconcertanti è stato registrato dai microfoni in campo nel Master 1000 di Montreal tre settimane fa: la volgare presa in giro di Nick ai danni di Stan Wawrinka a fini psico-terroristici, con allusioni alla presunta scarsa fedeltà dell’attuale compagna del campione svizzero, la tennista croata Donna Vekic. L’ATP, finora più che tollerante, non ha potuto che intervenire con multa e sospensione peraltro rinviata. Secondo l’inviato del Guardian a New York, Kevin Mitchell, il match agli Us Open è dunque “una sorta di esame pubblico di una psiche troppo fragile, qualcosa che ha poco che fare con lo sport”. Un giudizio durissimo che non tiene conto delle responsabilità di quanti nell’ultimo anno hanno concesso a Kyrgios di diventare una star solo marginalmente per meriti agonistici, pur avendo battuto avversari come Rafael Nadal, Richard Gasquet, Milos Raonic e Stan Wawrinka.
La partita comunque non delude l’affollata platea dell’Arthur Ashe Stadium. Nelle due ore e 42 minuti il numero 3 del ranking mondiale si conferma in buona forma e di costante rendimento mentre il numero 37 non riesce se non saltuariamente a raggiungere un livello di gioco adeguato alla forza dell’avversario. Su consiglio di Lleyton Hewitt, sugli spalti in veste non ufficiale di vice-coach, Nick si concentra sulla seconda di servizio di Andy, tentando di forzarla il più possibile. Il baronetto è però concentrato e trasforma in punti il 71 per cento delle prime e il 54 delle seconde. Inoltre, ha un tasso di errore irrisorio. Solo nel terzo set si prende una sosta. Al servizio sul 5-4 per Kyrgios, non riesce a incassare nemmeno un quindici e riapre il match. Come gli hanno insegnato a suo tempo tempo, non si scompone e dimentica immediatamente il passaggio negativo: in 27 minuti chiude la partita lasciando un solo game al sopravvalutato (anche da me) giovane di Canberra. Il risultato è 7-5 6-3 4-6 6-1.
I due si ritroveranno presto. Dopo Flushing Meadows è in programma il turno di Davis, con la Gran Bretagna che a Glasgow incontrerà l’Australia. In palio c’è la finale. Sempre che il coach Wally Masur non decida di schierare un altro singolarista scegliendolo tra Thanasi Kokkinakis, che appare in notevole crescita, Sam Groth e l’espertissimo ex numero 1 ATP Lleyton Hewitt.
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Fognini diventa Carlito Perez, un alter ego per la vittoria (Vincenzo Martucci, Gazzetta dello Sport)
A.A.A. Cercasi disperatamente via di fuga dal meccanico bim-bum-bam, destra-sinistra, perché il tennis non diventi uno sferragliare di muscoli senza pensiero, soprattutto sul cemento non velocissimo di Flushing Meadows. Certo, per fortuna, c’è ancora Sua Maestà, Roger Federer il Magnifico, che inizia la corsa verso la conquista dello Slam n. 18 scherzando Leo Mayer sulla scia del torneo di Cincinnati dove ha sorpreso sia Murray che Djokovic. I suoi balletti sono sempre strepitosi, unici, come le accelerazioni che rubano il tempo a qualsiasi avversario. Ma, sugli altri campi, la differenza non può venire solo dai completini colorati e dalle scarpe gialle imposti dallo show business, di giorno in giorno, qui agli Us Open come negli altri grandi tornei.
Perciò ben venga «Faccia d’angelo», Thanasi Kokkinakis, uno dei terribili ragazzini australiani, che sfodera micidiale rovescio lungolinea a due mani, super servizio e spinta continua ed accelerata verso la rete. Così, per due ore e mezza, soffoca il talento pigro di Richard Gasquet, accendendo la speranza di vendicare il recente k.o. in Ohio. «Kokk», quella faccia da bambino e 196 centimetri di fisico da bambù, possiede killer instinct e spirito giusti per guardare molto più in alto del numero 71 nella classifica mondiale, ma non è ancora pronto per le battaglie fisiche del tennis pro, o almeno per le maratone di cinque set dei Majors. E, avanti 6-41-6 6-4, si blocca gli adduttori: non può più servire, non può più spingere da fondo. Dissotterra, impavido, lo spirito dei maestri d’Australia e si butta disperatamente a rete, a più non posso. Ma all’alba del quinto set, si ritira. Applausi dal pubblico, racchetta frantumata dalla rabbia.
ALTER EGO Kokk è il finalista di Australian e Us Open juniores 2013 e anche quello dello scandalo Kyrgios-Wawrinka-Vekic, ma si farà un nome altrimenti. Fabio Fognini che supera «Bum Bum» Steve Johnson nel lunedì notte italiano, è lo stesso che un anno fa sclerava contro Mannarino, gettando via il match. Quello che, nel bene e nel male, dimostra personalità mandando a quel paese Rafa Nadal ad Amburgo come twittando, dopo 45 minuti di ritardo dell’auto ufficiale per il tennis: «Penso che i trasporti e i campi d’allenamento degli Us Open siano i peggiori dell’anno». Il successo sul temibile americano arriva solo dopo 2 ore e 50 minuti, 54 vincenti e 48 errori (12 doppi falli), con l’ennesima rimonta dopo un brutto primo set e uno sprint da brividi con il Johnson di turno che fa tre doppi falli di fila, lanciando il tie-break decisivo. Ma s’arricchisce di perle straordinarie: un paio di rovesci e dritti di una difficoltà spaventosa, la protesta nella protesta quando il Falco gli mostra che ha ragione, ma gli scrive che ha torto (costringendo l’arbitro a un’ulteriore, insolita, verifica), e il doppio lancio di baci di scherno al pubblico partigiano. «Fogna» regala anche qualche imprecazione in mondovisione, ed urla a se stesso, cioè all’alter ego che s’è inventato con l’aiuto dell’amico, e gemello di doppio, Simone Bolelli: «Mi chiamo Carlito Perez di Pordenone Terme». Quanti strani «CARLO» sentiremo nel secondo turno contro Cuevas? Meglio per lo spettacolo.
RISCHI Spiccano anche Karin Knapp e Camila Giorgi. L’altoatesina, emigrata per amore e lavoro ad Anzio (dai fratelli Piccari), cede il tie-break iniziale a Ajia Tomjanovic, ma poi la doma e si propone alla mancina Kerber: «Ho appena toccato la classifica-record al numero 33. Sono contenta, è la mia seconda carriera, dopo essere ripartita dai tornei di 10mila dollari per le due operazioni al cuore e le due alle ginocchia. Se continuo a lavorare e migliorare, posso salire ancora un bel po’. Con la mia potenza, anche le più forti non mi prendono a pallate (…)
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La crisi degli Stati Uniti, problema di mentalità (Paolo Bertolucci, Gazzetta dello Sport)
C’erano una volta gli Stati Uniti, una potenza tennistica terrificante con protagonisti che hanno scritto la storia di questo sport. Da Sampras ad Agassi, da Connors a McEnroe dalla King alla Evert. Erano i dominatori assoluti ben supportati da una macchina organizzativa di primo livello. Ma il mondo va avanti e quando i confini si sono allargati, nuove nazioni si sono affacciate e la tecnica evolvendosi ha modificato questo sport. Per anni gli americani hanno disdegnato la campagna sul rosso riservando le attenzioni solo al veloce senza capire che, ad esempio, l’armata spagnola è nata il giorno in cui sono usciti dal loro recinto e hanno portato il top spin, carico a pallettoni, in ogni angolo del mondo. Hanno cercato di correre al riparo aprendo nuovi centri di allenamento e chiamando sempre nuovi tecnici ma la forbice non è diminuita. Per giustificare il crollo non possono attaccarsi al massiccio reclutamento dello sport universitario o alla scarsa presenza di atleti di colore perché questo problema era presente anche prima e se escludiamo le Williams (emerse da sole) il tennis americano attualmente è un deserto. Cambiare la mentalità tuffandosi nel circuito e accettare le modifiche tecniche potrebbe essere il primo passo per ritornare ai vertici (…)
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Bravo Fognini, batte anche il falco (Stefano Semeraro, Corriere dello Sport)
Ecco il Fognini che vince, convince e diverte. Anche sul cemento, che quest’anno gli aveva regalato solo due amari primi turni. L’azzurro, oggi n. 32 Atp, ha debuttato nella maniera giusta agli US Open, domando in 4 set (2-6 6-3 6-4 7-6, 2 ore e 50 minuti) il rognoso marine statunitense Steve Johnson, 47 del mondo e reduce da due semifinali a Winston Salem e Washington. Di Fabio è piaciuta soprattutto la tenuta mentale, la tigna, la voglia di non mollare. Perso male il primo set contro Johnson, Fognini è stato infatti capace di risalire da 0-2 nel secondo e da 3-5 nel terzo, salvando un set-point (con un ace) e sfruttando poi un game-harakiri del californiano (tre doppi falli sul 5-4) per conquistare fi tie-break che si è aggiudicato alla grande (7-2), fiondando dritti spettacolari
Non sono mancati i siparietti (in cui gridava il nuovo soprannome che gli ha affibbiato l’amico Bolelli: Carlito Perez da Pordenone Terme) i battibecchi anche divertenti, con i giudice di sedia («Ogni tanto si addormentava») e il pubblico, a cui ha mandato ironici “bacini”. Ma nei momenti più difficili del match Fabio ha saputo tenere 1 nervi saldi, compreso quando il “falco” ha incredibilmente mostrato l’immagine di una sua palla che toccava la linea ma con la scritta “out” stampigliata sopra. Un paradosso poi chiarito a suo favore, ma che fomenta i dubbi sull’attendibilità del sistema Ora gli tocca il n. 40 Pablo Crevas (2-1 per Fabio precedenti). «Sono venuto qui con molta voglia. Cuevas è pericoloso (…)