“Non giocare”.
Sono lontano ore dal giocare la partita di tennis più importante della mia vita: quarto turno agli US Open … nel Labor Day … nel giorno del compleanno di mio padre … sull’Arthur Ashe … sulla CBS … contro Roger Federer. Sono lontano ore dal giocare contro il tennista più grande di tutti i tempi, con la possibilità di raggiungere il mio miglior risultato, nel mio torneo preferito nel mondo. Sono lontano ore dal giocare la partita per cui hai lavorato, hai fatto sacrifici, per un’intera carriera.
Non posso farlo.
Davvero, non posso.
È primo pomeriggio; mi trovo sulla macchina che mi sta portando ai campi.
E sto avendo un attacco d’ansia.
In realtà, sto avendo una serie di attacchi d’ansia, prima ogni 15 minuti, molto presto ogni 10. La mia mente inizia ad entrare in una spirale. Sto diventando pazzo.
Mia moglie mi chiede, “Cosa possiamo fare? Cosa possiamo fare? Come possiamo migliorare le cose?”
E io le dissi la verità: “L’unica cosa che potrebbe farmi sentire meglio in questo momento, è l’idea di non giocare quella partita”.
Lei esitò, mi guardò solo un secondo, per assicurarsi che fossi serio. Sono serio. Questo non sono io che pensa – questo sono io che reagisce, che sente, che prova a sopravvivere. Mi rispose chiaramente: “Bene, allora non dovresti giocare. Non devi giocare. Non giocare.”
I miei disturbi d’ansia iniziarono nel 2012, durante quello che sarebbe dovuto essere il punto più alto della mia carriera. Ero alla fine di un lungo percorso, lungo pochi anni, dove le cose iniziavano a funzionare davvero per me.
Nel 2009, attraversai questa sorta di esperienza che mi aprì gli occhi, arrivai a questo punto di svolta. Avevo 27 anni. Fino ad allora avevo avuto una buona carriera. Era una carriera di cui, sotto molti aspetti, sarei potuto andare fiero: avevo vinto la medaglia d’argento ai Giochi Olimpici del 2004, qualche buon risultato negli Slam, avevo visto il mondo, fatto una bella vita. Ma non era durato a lungo.
Ero sposato da poco, e le mie prospettive stavano cambiando, crescendo. E credo che in quel momento avessi realizzato, in un modo in cui non avevo mai fatto prima che una “buona” carriera per me non fosse abbastanza. Che non ero ancora finito. Che volevo ancora fare qualcosa di importante in questo sport. E, cosa più importante, doveva essere ora o mai più.
Cambiai la mia dieta, il mio stile di vita, il mio atteggiamento. Scesi da 91 Kg a 78, trovai il mio “peso da battaglia”. Non ero sicuro al 100% di dove questo mi avrebbe portato ma sapevo che dovevo scoprirlo.
Nel 2010 iniziarono ad arrivare i risultati. Riuscii a battere Andy Murray a Miami in 2 set, un risultato che non avrei mai raggiunto qualche anno prima. Giocai consecutivamente 5 set al Roland Garros – perdendo il secondo match 10-8 al quinto contro la testa di serie n. 14 Ivan Ljubicic, ma giocando ad un livello fisico che non ero stato mai in grado di raggiungere prima. Vinsi due tornei di seguito quell’estate, Newport e Atlanta – riuscendo a battere John Isner in finale ad Atlanta nel bel mezzo di un’ondata di caldo, su un campo su cui c’erano 50°. Persi la finale a Cincinnati contro Federer 6-4 al terzo, un match che avrei potuto vincere facilmente. E sconfissi Andy Roddick – che mi aveva sempre percosso come una batteria, otto volte di fila – un paio di volte.
Il 2011 fu anche meglio. Raggiunsi i migliori risultati al Roland Garros e a Wimbledon. Passai Andy, uno dei miei migliori amici, per diventare l’americano n.1 del ranking. E poi, forse la cosa migliore di tutte, diventai ufficialmente un top10. Dal momento che il 2012 si avvicinava ero n.8 del mondo. Era tutto ciò per cui avevo lavorato, che avevo costruito per me quasi dal nulla, in quegli ultimi anni. Non ero più solo un altro ragazzo nel tour. Ero nell’elite di alto livello.
E fu lì che gli attacchi d’ansia iniziarono. L’ansia è difficile da definire da un punto di vista di causa ed effetto, ma quando penso al suo inizio per me, un paio di cose mi saltano in mente.
La prima è che le mie aspettative cambiarono, sia esternamente che internamente, di conseguenza con il mio ranking. Guardando indietro, questa non è stata necessariamente la cosa più salutare. La mia insoddisfazione con lo status quo, che era stata così d’aiuto quando c’erano 20 giocatori posizionati davanti a me in classifica, divenne qualcosa di molto più stressante, e poi distruttiva, credo, quando quel numero si ridusse a sette.
L’idea di non essere abbastanza bravo era forte, e mi guidò, ad un’età in cui le carriere di molti giocatori entrano in fase calante, verso queste vette incredibili. Ma divenne anche un interruttore difficile da spegnere. Io stavo giocando oggettivamente bene. E guardandomi indietro, lo avrei voluto dire al me stesso di allora. Ma quel fare bene era qualcosa che il mio spirito non aveva avuto il tempo di gestire. Tutto ciò su cui riuscivo a concentrarmi era fare ancora meglio. Era una lama a doppio taglio.
La seconda cosa è che iniziai a sperimentare queste aritmie cardiache. Un’aritmia è di base l’elettricità attorno al cuore che non funziona correttamente. Il mio cuore divenne un po’ pazzo, e non ero in grado di fermarlo. Ero davvero spaventato. Mi presi del tempo, quindi mi sottoposi ad una procedura correttiva chiamata ablazione, dopo la quale stavo verosimilmente ‘bene’.
Ma quando tornai in campo quell’estate, nel periodo di Wimbledon … fu allora che iniziai ad avere questi strani e nuovi pensieri. Ansiosi ed inquieti pensieri. Come se fossi nervoso per qualcosa che doveva accadere, anche se poi questa non accadeva. E credo che ciò che il mio cuore ha dovuto attraversare fu sotto molti aspetti dovuto al trauma nascosto nelle ombre di quei pensieri.
Iniziai ad avere problemi d’insonnia; non riuscivo a dormire solo. Doveva esserci mia moglie con me, sempre. Doveva esserci qualcuno nella mia stanza, sempre. Ero un ragazzo che amava stare con se stesso. Mi piaceva viaggiare da solo e quel tipo di solitudine. Quella sensazione di spegnere il telefono ed avere davanti a te un lungo volo … quello mi dava pace. Ma non potevo più viaggiare da solo. I miei genitori dovettero venire a Wimbledon. Avevo bisogno di persone attorno a me costantemente, punto.
Ed in tutto questo, continuavo ad avere questi pensieri. Quest’ansia. Questa paura confusa e spossante iniziò a consumarmi.
E gli attacchi iniziarono a peggiorare.
Ironicamente, a quel punto non mi era mai successo in campo. Continuavo ad ottenere risultati: quarto turno a Wimbledon, quarti in Canada e a Cincinnati. Continuavo a giocare bene.
Era solo lontano dal campo che quei problemi esistevano, e prendevano forma. Che quei pensieri continuavano ad infiltrarsi. E quindi a diventare sempre più frequenti: da una o due volte al giorno, ad un mucchio di volte al giorno, fino ad ogni 10, 15 minuti, quando tutto peggiorò verso la fine di quell’estate. Ansia, sovrastanti attacchi al pensiero. Quando tornai in hotel, cercai su google “disturbo d’ansia”, “disturbo da attaco di panico”, “depressione”, “salute mentale” … ma non ne sapevo nulla di tutto questo. Non sapevo cosa fare. Non ne avevo idea.
Almeno, dissi a me stesso, non succede in campo.
E allora successe in campo.
Erano gli US Open del 2012, verso la fine dell’estate. Dovevo giocare un match in notturna, terzo turno contro Gilles Simon – una testa di serie più alta di me, ma io stavo giocando meglio di quanto non dicesse la mia classifica. Sentivo di poter avere delle possibilità.
È una bella posizione in cui trovarsi. Le partite in notturna in uno Slam sono riservate per i migliori accoppiamenti, ma anche per i tennisti preferiti, quelli che il pubblico vuole vedere. Ed io ero uno di loro. Dopo anni passati a guardare da fuori, adesso ne facevo parte. Non stavo giocando il match di qualcun altro. Era sera agli US Open e io stavo giocando “la partita di Mardy Fish”.
Questo è speciale ma anche stressante. La partita andò avanti tra alti e bassi, davvero emozionante. Mi trovai in bilico per tutto il tempo: un pugno in aria, una racchetta a terra, e la sensazione … d’ansia. Ero guidato dall’ansia. E non dimenticherò mai quando successe, il primo ed unico attacco d’ansia su un campo da tennis.
Ero in vantaggio due set ad uno, eravamo 3-2 al quarto. Con la coda dell’occhio vedo l’orologio. Segna l’1:15 del mattino. E quello, per non so quale ragione, fu troppo.
Quello fu il mio grilletto.
La mia mente iniziò a vagare sempre più giù in quella spirale di pensieri. 1:15. Oh mio Dio – è così tardi. Domani starò malissimo. Dobbiamo ancora finire di giocare questa partita … e poi dovrò andare in sala stampa … dopo dovrò fare stretching e mangiare … mi sentirò malissimo dopo tutto questo.
E continuò così a peggiorare fino ad un punto in cui non riuscivo più a controllarlo. Non ho idea di quello che successe dal punto di vista tennistico. Per nulla. Non ricordo niente. In qualche modo riuscii a vincere i successivi tre game, poi il set e la partita. Ma non ricordo nulla.
Tutto ciò che ricordo è l’intervista post partita. Justin Gimelstob mi stava intervistando, è un buon amico. Ricordo solo di averlo guardato prima che iniziasse e di avergli detto con incredibile urgenza, “Per favore, fa presto”. Justin non aveva idea di ciò che stavo dicendo. Ma continuai a dirgli, “ Per favore, fa in fretta. Per favore, fa in fretta”. Dovevo andarmene. Dovevo uscire dal campo.
Quando mi successe in campo, sapevo. Niente sarebbe più stato lo stesso.
Quindi, due giorni dopo, tutto venne a capo.
Eravamo in macchina, guidavamo verso il mio match successivo contro Roger – e i miei pensieri erano colmi di paura. Mi succederà ancora in campo? Avrò un attacco d’ansia ancora di fronte a migliaia di persone? Avrò un attacco d’ansia mentre provo a fare il mio lavoro?
Quei pensieri continuarono e non si fermavano. Continuarono ancora e ancora. Ero davvero in brutta situazione.
E mia moglie continuava a guardarmi e a ripetere a se stessa: Non devi giocare. Non devi giocare. Non giocare. Ed io ascoltavo … ma non ascoltavo. Pensavo, Riesci ad immaginarlo? Riesci ad immaginare il fatto di non giocare questa partita? Non riuscivo a pensarci. In quel momento non riuscivo a pensare a nulla.
Ma poi finalmente la ascoltai. Non devi giocare. Non devi giocare. Non giocare. E così, mi colpì. Lo ricordo così chiaramente, così potente. Oh mio Dio, pensai. Io … non lo farò. Non andrò lì fuori, con l’ansia, di fronte a 22mila persone. Non giocherò contro Roger.
Non giocherò.
E non giocai.
Prima non giocai contro Roger. E poi, non giocai più.
Tre anni dopo, sono ancora una volta agli US Open. E anche se penso di essere ancora in grado di giocare ad un buon livello, questo sarà il mio ultimo torneo. Dopo l’Open, mi ritirerò dal tennis.
Questo non è un film sullo sport, ovviamente, e non ci sarà una fine da film sullo sport. Non cavalcherò verso il tramonto, sollevando un trofeo. Non vincerò il torneo.
Ma va bene – perché onestamente questa non è una storia di sport. E credo sia importante che la mia storia non abbia un vocabolario sportivo. Non “soffocherò” nel secondo atto, e non “vincerò” nel terzo.
Questa è la storia di una vita.
È una storia su come un problema di salute mentale mi abbia portato via il lavoro. Su come tre anni dopo, sto ancora facendo quel lavoro, e lo faccio bene. Ho giocato di nuovo lo US Open.
È una storia su come, con la giusta educazione, conversazione, cura e mentalità, le cose che una malattia ci porta via, possiamo riprendercele.
Dieci milioni di americani ogni anno devono far fronte a problemi legati alla salute mentale. Ed il viaggio di dovervi avere a che fare, di doverci convivere è lungo. Può durare per sempre. O peggio, può essere mortale.
E con questo voglio essere d’aiuto.
Voglio essere una storia di successo, a mio modo. E credo che ritirarmi secondo i miei termini, nel torneo che amo di più, è parte della mia capacità di poterlo fare.
Parlare di questo, e far andare avanti la conversazione, è parte di questo. La salute mentale è qualcosa di difficile da affrontare nello sport. Non è percepita come una cosa molto mascolina. Siamo così abituati a dover essere mentalmente forti nello sport. Mostrare debolezza, ci viene detto spesso, significa meritare la vergogna.
Ma io sono qui a mostrare la mia debolezza. E non me ne vergogno.
Ed infatti ho scritto tutto questo, con l’intento di mostrare la debolezza. Scrivo tutto questo per dire alle persone che essere debole è okay. Sono qui per dire alle persone che è normale.
E che la forza, si può mostrare sotto molti aspetti.
Parlare della tua salute mentale, vuol dire essere forti. Cercare informazioni, e aiuto e una cura, vuol dire essere forti. E prima del match più importante della tua carriera, dare priorità alla tua salute mentale, dire, Non devi giocare. Non devi giocare. Non giocare …
Anche quello vuol dire essere forti.
E per quello che verrà dopo, non ne sono sicuro. Ho 33 anni, e so che non farò mai nulla bene come giocare a tennis.
Convivo ancora con l’ansia giornalmente. Mi curo giornalmente. È nella mia testa giornalmente. Ci sono giorni che passano, in cui sarò in grado di dire a me stesso, di notte, quando sono a letto: Hey, oggi non ci ho pensato neanche una volta. E quello significa che avrò avuto una bella giornata.
Quelle sono vittorie per me.
Ma non c’è alcun torneo da vincere per la salute mentale. Non ci sono quarti, semifinali o finali. Non concluderò questo pezzo con una metafora sportiva.
Perché lo sport si conclude con un risultato. La vita va avanti.
La mia, spero, è solo iniziata.
Traduzione di Chiara Bracco