L’appassionato di tennis sa benissimo che uno Slam non è un torneo qualunque. Il giornalista con alle spalle un’unica esperienza da inviato nel prestigioso ma raccolto Master 1000 di Montecarlo non può invece minimamente immaginarsi cosa lo aspetti, nonostante le spacconate con gli amici prima di partire.
Sabato 29 Agosto affronto il volo di andata da Milano Malpensa al John Fitzgerald Kennedy di New York, rigonfio di entusiasmo e fiducia. Lo US Open 2015 avrebbe costituito la pietra miliare della mia consacrazione, il redattore con un Master 1000 e un torneo dello Slam all’attivo, due anni di esperienza con Ubitennis per più di 130 articoli pubblicati. Sicuro: il mio primo Slam sarà così, un grande trionfo. Due settimane e qualche giorno dopo, posso dire lo è stato in tutto e per tutto come tifoso e malato di tennis – la finale tutta azzurra Pennetta-Vinci, Fabio Fognini che rimonta due set di svantaggio a Nadal con l’Arthur Ashe in delirio: l’Italia dello sport che dà la migliore immagine del nostro paese – come giornalista, invece, forse l’aggettivo più corretto per definirlo è tragicomico.
Lunedì 31 Agosto, day 1, primo incarico del mio torneo: intervistare i giocatori russi che avrebbero, una settimana dopo la fine dell’Open americano, sfidato l’Italia di Corrado Barazzutti in Coppa Davis.
“Perfetto Direttore, nessun problema”, rispondo con voce nelle intenzioni ferma e sicura e nei fatti terrorizzata, ben consapevole che non avevo idea di chi avrebbe giocato nella squadra russa, Andrey Rublev a parte. Scanagatta, che mi conosce bene, ha già individuato la morte nei miei occhi, ma non lascia spazio a ulteriori e inutili domande: “Vai al desk a richiedere una chiacchierata di 5 minuti con ogni giocatore russo in campo oggi, sbrigati!”. Scorro i giocatori russi nel programma del giorno, sono Teymuraz Gabashvili e Evgeny Donskoy. Eseguo, pallido in viso e con un inglese piuttosto stentato, ma ottengo quello che cerco.
Gabashvili si presenta con 5 minuti di ritardo, scusandosi subito con molta educazione. Inizia l’intervista e dopo la prima domanda su Seppi, che sarà il suo prossimo avversario al secondo turno, le ansie per le domande migliori da fare spariscono di fronte alla faccia del giocatore russo. Teymuraz sembra uscito da un B-movie dove lui è il presunto serial killer che poi si rivela lo sventurato con le fattezze del malvagio quando in realtà non farebbe male a una mosca. In effetti, visto negli occhi, non ha poco dell’omicida seriale: sguardo dritto negli occhi, guance a un passo dall’essere definibili come butterate, cranio divergente dal mento alle tempie. È molto cortese e sorridente, altro particolare che farebbe pensare al peggio, ma io sono concentrato sulle domande da fare ed escludo possa compiere uno dei suoi efferati crimini nell’ingresso della Sala stampa. Concludo con un ringraziamento e una stretta di mano, a quel punto il giovane Donskoy non può certo farmi paura.
Più tardi, quando il sole è già tramontato da una mezz’ora, il Direttore, solitamente generale inflessibile, dimostra un cuore tenero: “Dai, fermati di lavorare, è il tuo primo Slam, corri a vedere la cerimonia di apertura”. Fuggo dalla sala stampa e faccio d’un fiato tre rampe di scale, trovo un posto libero proprio mentre finisce la musica. “Scusi, cosa prevede ora la cerimonia?”, chiedo a un’attempata e cordiale signora. “È appena finita, tra poco giocherà Serena, te la sei persa?” “Sì, ma lo spettacolo comincia ora!”, esclamo con una risata a trentadue denti che maschera la mia immane dabbenaggine. Sono comunque solo all’inizio delle mie peripezie.
Il giorno successivo (martedì 1 Settembre), dopo una lunga giornata di lavoro oscuro, passata in buona parte a sbobinare le registrazioni delle conferenze stampa e delle interviste per trascriverne i riassunti, passo dalla Sala Stampa alle tribune riservate ai media per gustarmi le battute conclusive del primo turno di gran qualità Murray-Kyrgios. Al termine del match, esco dal Centrale ma, disorientato dalla folla e dalle dimensioni dell’Arthur Ashe, imbocco una scalinata laterale dopo che un’inserviente mi ha aperto gentilmente una porta di servizio e, senza rendermene conto se non quando è troppo tardi, mi ritrovo fuori dai cancelli dell’intero Billie Jean King National Tennis Center. Il mio senso dell’orientamento è prossimo allo zero, faccio così venti metri al buio seguendo alcune persone e mi rivolgo a una donna dello staff: “Chiedo scusa, mi può dire la strada più breve per raggiungere la Press Room?” “Certo, laggiù”, risponde indicandomi una serie di bagni pubblici. “No, madame, the Press Room, please”. “Oh sorry, avevo capito restroom” (che significa toilette). Evidentemente, il physique du rôle del giornalista, nonostante il chiaro pass appeso al collo, sono ancora ben lungi dall’acquisirlo…
Le prime giornate sono contrassegnate da piccole esperienze utili a forgiare il carattere e il modo di vivere un torneo dello Slam contraddistinto da baccano, musica a palla, perenne olezzo di hot-dog, corse sfrenate tra campi e sala stampa, con un’occhio alla cartina di Flushing Meadows e l’altro a non schiantarsi negli spostamenti trafelati contro qualche tifoso, magari carico di Coca-Cola gigante e hamburger pronto a dipingere la tua maglietta con le sue salse colorate. Capita allora che durante un’agognata pausa pranzo, nella mensa dei giornalisti sita all’interno dell’Arthur Ashe Stadium, preso dalla frenesia delle mille cose da fare, lo stomaco non reclami chissà cosa, ma solo di un po’ di frutta rinfrescante. Uno dei miei colleghi inviati di Ubitennis, Luca Baldissera, il brillante autore degli spunti tecnici, vede che metto sul vassoio il cestino con la frutta e una Coca, nient’altro. D’improvviso, quasi mi attacca al muro, sguardo fermo e voce stentorea: “Giovanotto, tu non l’hai ancora capito: qua siamo in guerra. Pensi che al fronte le truppe mangino quando glielo chiede lo stomaco? Si mangia quando si può, non quando si vuole! Adesso ordina quell’ammasso informe di carne, cotta in quell’intruglio unto, che chiamano pulled pork: è tutto quello che ti serve”.
“Ma io volevo solo un po’ di frutta”.
“Fa’ come dico, il Generale Scanagatta non ammette altre pause pranzo, questa è la tua unica occasione per arrivare alla fine della giornata, chiaro?”
“Sì, Signore”, affermo rassegnato chinando il capo.
Sabato 5 Settembre, dopo il difficile match tra Flavia Pennetta e Petra Cetkovska, incrocio Corrado Barazzutti, praticamente sempre presente ai match di quasi tutti gli azzurri e gli chiedo se può rilasciarmi qualche dichiarazione. Lui accetta, cortese e sorridente. Dopo tre domande sul match appena vinto da Flavia, me ne esco con la seguente frase: “Volendo essere ottimisti, c’è la possibilità di un derby Pennetta-Vinci ai quarti di finale”. Lui mi guarda strano, come a dire “ma che stai blaterando?”, io realizzo l’enorme gaffe e chiudo pietosamente l’intervista: “e allora grazie a Corrado Barazzutti”. Me ne vado, stringendo la mano al capitano di Davis e Fed Cup, con lo sguardo di chi vuole rimediare quando il latte è già stato versato, convinto a questo punto che per il Premio Pulitzer ci sia ancora molto da aspettare… e invece l’intuizione (perché è chiaro che di quello si è trattato) era perfetta, la più lungimirante delle premonizioni: il derby tra Flavia e Roberta ci sarebbe stato eccome, solo un po’ più avanti dei quarti! Grazie ragazze, per avermi salvato la carriera…
A proposito della finale tutta italiana, potete immaginare l’emozione unica e la fortuna incredibile di poter dire “Io c’ero!”. Alla grande cavalcata di Flavia Pennetta ha fatto da contraltare un tabellone nella prima parte fortunato di Roberta Vinci, prima che la tarantina superasse con una grande partita Kiki Maldenovic ai quarti di finale e poi compisse il miracolo nella leggendaria semifinale con Serena Williams. Si è trattato di una delle più grandi sorprese di sempre nella storia dello sport, allo stesso livello, se non oltre, della sconfitta di Rafa Nadal contro Robin Soderling al Roland Garros del 2009, di quella di Mike Tyson sul ring di Tokyo nel 1990 contro Buster Douglas, della nazionale americana di basket che perse l’oro alle Olimpiadi di Seul ’88 contro l’Unione Sovietica (se pur tra mille polemiche per come terminò quella gara), che finì per convincere i responsabili del basket a stelle e strisce a dare vita al Dream Team che avviò il suo dominio a partire dalle Olimpiadi di Barcellona ’92.
Non può allora non tornarmi in mente quell’episodio già raccontato nel pub di Manhattan di una sera della prima settimana, dove una bionda tanto alticcia quanto poco affascinante si era avvicinata a noi di Ubitennis, desiderosi di una birra rinfrescante e d’incontri più appetibili, biascicando qualche parola sullo US Open e gridando a più riprese “Serenaaaaa, she can not lose!”. Grazie di cuore, poderosa iettatrice yankee…
Non è stato però solo divertimento, impegno e grandi emozioni. In due settimane full-immersion c’è stato anche lo spazio per lo sconforto e la delusione. La scrittura della cronaca di Pennetta-Cetkovska si rivela più complicata e lunga del previsto: il Direttore si accorge che sono ancora alle prese con la scrittura del pezzo, quando in Italia è già abbondantemente passata la mezzanotte e gran parte dei lettori ha lasciato Ubitennis per andare a dormire. La sua espressione raffigura tutta la delusione provata da entrambi, io in primis. Il colpo è duro, rialzarsi da una botta morale del genere non è banale.
Trovo però qualche giorno dopo un insperato aiuto da Flavia Pennetta, che parla così in conferenza stampa (non ricordo successiva a quale match): “Avete presente quei giorni in cui ti svegli e ti senti svuotata, senza voglia di fare niente? È in quei momenti che ti fai forza e decidi comunque di portare a termine i tuoi compiti, si tratti dell’allenamento o di qualsiasi altra cosa, perché ti rendi conto che se non lo fai, se lasci perdere, se ne vanno delle occasioni che potrebbero non ripresentarsi più”. Detta così può suonare anche banale, ma è stato esattamente quello che ho detto a me stesso quando era ora di affrontare la cronaca successiva. Si tratta del quarto di finale tra Novak Djokovic e Feliciano Lopez, giustiziere di Fognini agli ottavi. Il match regala momenti di grande spettacolo, col gioco di volo dell’iberico e le contromosse del n.1 del mondo, anch’egli bravissimo a prendere la rete per non lasciare l’iniziativa a Feliciano. Mi appunto molte cose, corro in sala stampa e comincio a scrivere. Nel frattempo, essendosi trattato dell’ultimo match della sessione serale, si sono fatte le 2:00 di notte. Una comunicazione vocale informa che il prossimo shuttle per Manhattan è alle 2:30 dal “South Gate”, dove sono sempre sceso al mattino e salito la sera, mentre l’ultimo bus passerà alle 3:00 dal “President Gate”. Raccolgo le ultime forze, passano le 2:30 ma il sangue è sufficientemente freddo da non farmi andare nel panico. Pubblico il pezzo alle 2:47 e poi corro fuori dall’impianto. Si tratta solo di capire dove si trovi questo maledetto “President Gate”. La guardia notturna mi dà due indicazioni di massima, “dritto e poi a destra”, corro all’impazzata ma non trovo altro, nel buio quasi totale, che una strada alberata alquanto cupa e inquietante. Sono ormai le 3:10, il bus è perso ma qui si tratta di ben altro. Cammino nel nulla, cercando di capire dove sono per chiamare un taxi, mentre comincio ad avvertire un certo freddo e mi par di udire da lontano persino qualche sinistro ululato… Quando tutto sembra perduto, quando già penso a come sarò ricordato nel firmamento giornalistico italiano, come martire di Ubitennis sul suolo americano, passa un piccolo bus dell’organizzazione. Spiego la situazione all’autista, che mi fa cenno di salire, portandomi generosamente al giaciglio e di fatto strappandomi alla fine nella boscaglia.
Al termine del torneo, delle ansie da giornalista e delle emozioni da appassionato, ho avuto un giorno e mezzo per godermi un po’ Manhattan (sì, dopo 14 giorni mi sono accorto che a New York c’è anche altro oltre al grande tennis…). Naturalmente, lo spazio per un’altra perla tragicomica c’è stato eccome e se siete stati nella Grande Mela d’estate potete intuire dove voglio arrivare: l’agghiacciante differenza di temperatura tra il caldo e l’afa fuori e il freddo polare degli ambienti interni, per via dell’aria condizionata sparata al massimo. Manca poco all’orario di arrivo del bus che mi avrebbe portato dall’albergo all’aeroporto JFK. Il mio animo etilista mi suggerirebbe l’ultima birra newyorkese di una lunga serie, ma prevale il buon senso ed entro in un classico bar americano per un caffè. Come detto, caldo afoso all’esterno, gelo siberiano all’interno. In questo contesto, in attesa del caffè, il tempo stringe e decido tragicamente d’ingurgitare in due rapidi sorsi quella brodaglia nera bollente appena servita. Il risultato è tanto logico quanto drammatico: temperatura corporea superficiale prossima allo zero assoluto, temperatura del mio stomaco a 18000 gradi. Comincio a vedere la musica e sentire i colori, vedo persino una finale maschile sull’Arthur Ashe tra Fognini e Lorenzi (non una ma addirittura due finali tutte italiane!), con Paolino che sotto 2 set a 0 e 5-0 Fognini nel terzo, tira un gran dritto in recupero da 4 metri fuori dal campo, Fabio è pronto a rete a chiudere una comoda volèe ma il nastro (di evidente matrice toscana) devia la palla superando il ligure, che diventa verde dalla rabbia, impreca, subisce un warning ed esce completamente dal match. Capisco così che le allucinazioni stanno svanendo: un Fognini del genere è del tutto realistico. Non so come, ma anche questa gimkana termica è stata superata. A questo punto non mi resta che il volo di rientro in Italia, pieno di ricordi, emozioni indescrivibili, passione, orgoglio italico per Flavia e Roberta e aneddoti fantozziani utili per divertire gli amici e, mi auguro, i lettori di Ubitennis.