Gianni Clerici: dal circolo di Como a Wimbledon, l’avversario ero io stesso (Gianni Clerici, La Repubblica)
Senza il tennis non mi sarei iscritto alla facoltà di legge, che scelsi perché non mi obbligava a seguire con regolarità le lezioni. Senza il tennis, non avrei, forse, preso a collaborare con riviste specializzate e, a soli diciannove anni, con «La Gazzetta dello Sport». Senza il tennis, non mi sarei abituato a una vita di viaggi così intensa da farmi passare nella mia amata città meno di metà dell’anno, mescolata a più di un’assenza pluriennale. Per non dire che, senza quel gioco magico, non avrei probabilmente appreso tante lezioni fondamentali. Per esempio la quotidiana ripetitività dei gesti, indispensabile a ballerini, soldati, religiosi; la necessità di prescindere da una buona condizione fisica per affrontare egualmente gli allenamenti e soprattutto le gare; l’abitudine a non trovarsi scuse, anche quando sussistono buone ragioni per essere ascoltato, compatito; la capacità di giudicarsi senza tener conto delle opinioni altrui, di amici, tifosi o giornalisti che siano. Infine, massimo risultato cui si arriva dopo molte gare e molte esperienze, la lezione più importante: la rivelazione che la partita non si svolge contro un antagonista, perché tutto accade dentro di noi, e noi stessi siamo il nostro avversario più temibile, spesso addirittura un nemico mascherato. Ma si arriva poco alla volta allo stadio avanzato della pratica sportiva, che oggi è diventata, con il professionismo, un lavoro.
Ai miei tempi il tennis era ritenuto un gioco aristocratico, se erano gli aristocratici a giudicarlo. Per altri, la maggior parte, un gioco da signorine, il sissy game anglo-sassone. Quante volte mi sono precipitato fuori dal recinto di Villa Olmo, sconvolto dall’ira, la racchetta stretta nel pugno come un’arma, per rincorrere e insultare a mia volta chi aveva lanciato il grido derisorio: «Gioeugh de signorina! (…) La vita del tennis mi ha davvero insegnato tante cose. Persino a non essere fascista. L’ambiente dell’Hanbury Tennis Club di Alassio non era forse una scuola di idee, ma certo di buone maniere, di gusto e di eleganza. Durante il torneo internazionale del 1938 mi colpi l’ingresso al club del federale. in giaccone di orbace nero, un aquilotto dorato sul berretto, anch’esso nero, stivaloni lucidati a specchio e muniti, chissà perché, di speroni. Fianco a lui, Lord Hanbury, il presidente, con la giacca blu listata del verde e viola di Wimbledon, i calzoni di flanella avorio un po’ logori, le scarpette di tela immacolate. Scegliere tra quei due tipi d’uomo era forse ovvio, o addirittura superfluo, ma mi servi, insieme alla prima sensazione di ingiustizia, a sospettare che quelli come il federale non volessero consentire ad altri di essere diversi da loro, o comunque diversi (…)
Il Tennis Como era diventato la mia casa. Vi facevo addirittura i compiti, tra una partita e l’altra, in un singolare studiolo, la giazzera, un torrone in cui gli antichi proprietari della villa, gli Odescalchi, usavano ammassare la neve per conservare i cibi nella stagione calda. (…) Finì la guerra e, alla prima gara importante, vinsi. Battei, nella finale del campionato lombardo. un giovanotto venti centimetri più alto di me, cinque anni più grande: Leo Schiavo. L’incontro si svolse sul campo centrale del Tennis Club Milano ancora mezzo diroccato da una bomba. Lasciando cadere il monocolo, il redattore della Gazzetta dello Sport, colonnello Vincenzo Cuccia, scrisse: «Sboccia un nuovo fiore nella serra del tennis lombardo». Fui subito soprannominato Nuovo Fiore dai miei compagni. Ma nelle loro derisioni c’erano anche ammirazione e invidia. Erano tutti sicuri che una grande carriera aspettasse, dietro l’angolo, il ragazzino magrissimo dalle lunghe gambe. Cominciai invece a perdere colpi, spesso ammalato, e costretto dagli impegni del liceo finii per ritirarmi, per una ragione doppia. Era intanto apparso Gardini, a battermi nettamente nella finale del campionato italiano juniores, e probabilmente ci sarebbe riuscito anche se non avessi avuto la febbre a trentotto. Insieme. per due anni, vincemmo anche il doppio, e costituimmo la punta della Nazionale giovanile, che aveva un terzo aspirante campione in Bitti Bergamo. Con Fausto e Bitti un buon tennis, tecnicamente migliore di quello di Gardini, e anche di Bergamo. Ma i due avevano fatto lega, andavano raccontando sul mio conto storie derisorie quanto sgradevoli, collegate a una gita in un bordello, e alla mia sopravvenuta impotenza nel corso di un incontro multiplo con una delle ospiti, per la verità repellente, nana e incinta com’era (…)
In quegli anni il tennis italiano era nettamente il primo in Europa, abituale vincitore della Davis europea, grazie a una felice saldatura tra la generazione dei vecchi Cucelli e Del Bello, e la nuova di Merlo, Gardini, e poi Pietrangeli, Sirola, Bergamo e, perché no?, Clerici. Ormai votato al singolo Gardini, avevo fatto coppia con Bitti Bergamo, sodalizio che durò due anni, un’amicizia densa di liti. rivalità non solo sportive. Intelligente, Bitti parlava quattro lingue, e passava con un sorriso gli stessi esami che mi facevano soffrire, alla facoltà di legge. Ma Bergamo, come Gardini, veniva da una famiglia di fascisti militanti, aveva un’alta opinione di se stesso, era insomma un maniaco del machismo. Non era sempre facile andarci d’accordo, ma vincemmo comunque molto, in doppio, ed eliminammo due coppie di Davis raggiungendo i quarti, agli Internazionali d’Italia. Forse fu un errore lasciarlo, nella convinzione che il nostro gioco fosse troppo simile, un bel tennis ragionato ma, alla fine, privo di esplosività. Nel frattempo avevo migliorato la mia classifica sino al n. 10, e soprattutto avevo giocato a Wimbledon. A quei tempi una classifica mondiale non esisteva ancora al di fuori di quella dei primi dieci, stilata a fine anno dal migliore tra i giornalisti britannici (…)