11 settembre 2015, ora di pranzo, sala stampa dello US Open, desk 34. Sto sistemando e montando alcune foto per gli spunti tecnici, e con la coda dell’occhio assisto sul monitor alla strepitosa semifinale della parte bassa del tabellone. Flavia Pennetta distrugge letteralmente Simona Halep in due set velocissimi. Il pensiero è: “Che bello. Che figata. Flavia in finale come Francesca cinque anni fa a Parigi. E non per caso, ma meritando da pazzi un match dopo l’altro. Wow”. Rientra dal campo Ubaldo, felice come una pasqua, e si mette a scrivere il suo commento, al desk dietro il mio. Si gira, e mi fa:”Luca, vai tu allora a fare Roberta con la Williams?”. Ma con piacere, figurarsi. Andiamo a compilare cronaca del massacro annunciato, penso, ma sarà fantastico comunque.
Il centrale è strapieno, pronto per il “Serena Show”. Il ticket per i media connazionali di una delle giocatrici è per il posto in prima fila; davanti hai solo i fotografi accucciati, sei a tre metri dalla sedia dell’arbitro. Più tardi devo seguire Federer e Wawrinka, la pioggia di ieri ha compresso il programma, quattro semi in un giorno, meglio scrivere in diretta. Portatile in una mano, e via. Non posso sapere che mi aspettano le due ore più esaltanti ed emozionanti della mia intera vita di appassionato di tennis, prima che addetto ai lavori.
Mi siedo accanto a Pam Shriver, bella fresca di parrucchiere, cotonata come tutte quelle che lavorano per la televisione USA, con il microfono pronto per le interviste di ESPN. Scambio di convenevoli, “oh you are an Italian journalist, nice, let’s hope to have a good match”. Eh certo, penso io. A voi americani piacerà moltissimo, son sicuro. Mi guardo intorno. Stare a bordocampo come al circolo dietro casa, ma con l’intero Arthur Ashe intorno e sopra di te, quasi 24.000 persone, fa sempre il suo effetto. Serena va al servizio. “Bum”, sento i colpi dell’americana, “swishhh”, sento gli slice di Roberta. Già dal primo game, mi accorgo che la Williams ha una smorfia di tensione stampata in faccia, e non ha un bel linguaggio del corpo. Da così vicino riesco a sentirla sbuffare e mormorare a bassa voce quelle che non credo siano rilassate e lucide analisi del proprio gioco, il tono è decisamente incazzato, le scappano parecchie “f words”. E poi succede questo.
Quando si scrive in diretta, è buona regola, anche perchè altrimenti si perderebbe il senso di “immediatezza” che si vuole comunicare a chi legge, lasciare in seguito tutto com’è, a parte gli ovvi refusi. La partita è tutta lì, e non ho problemi ad ammettere che non ci credevo nemmeno io, non fino a metà del terzo set. Altra buona regola è la già citata “no cheers in the press box”, ma quando Roberta chiude quella volée, e si gira urlando in faccia a un muro di gente infinito “adesso applaudite me, c***o!”, scatto in piedi d’istinto anch’io, prendendo il laptop al volo nel contempo, sennò finiva in campo. Nel tornare seduto, incrocio lo sguardo della Shriver, che stringe il microfono così forte da avere le nocche bianche, e mi guarda come fossi un predicatore evangelico che le suona a casa domenica mattina. Abbi pazienza, Pam, che ti devo dire, lo sai meglio di me quento terribile possa essere il tennis.
Dal 3 pari al terzo, non ho ricordi definiti, solo immagini e suoni che si accavallano tra loro. Scrivo in automatico, senza pensare, ipnotizzato da quello che sta avvenendo davanti a me. Incrocio lo sguardo del collega di Eurosport Simone Eterno e di Luca Marianantoni della Gazzetta, e il commento comune, solo di labiale, è :”ma cosa sta succedendo, ragazzi? Cosa c***o sta succedendo???”. All’ultimo cambio campo, 5-4 e servizio Vinci, Roberta viene verso la sua sedia camminando leggera come una piuma. Serena sembra abbia uno zaino da 50 chili di pressione e aspettative sulle spalle, il viso terreo e le labbra tanto serrate da essere sottilissime. Ho l’adrenalina a livelli da panico, tremo leggermente, il respiro è corto. 24.000 facce esterrefatte, tra cui la mia, vedono la ragazza italiana tenere la battuta a zero, con demi-volée vincente sul match point. Spero non mi abbiano inquadrato in tv, perchè ricordo di essere rimasto per minuti interi in piedi, senza neanche applaudire, con le mani nei capelli, il pc buttato non so dove, e uno sguardo ebete fisso su Roberta mentre veniva intervistata in campo, mormorando “che hai fatto? Oddio, ma che hai fatto?”.
La tensione per quanto accaduto non molla fino a sera, vado a far cronaca di Federer e Wawrinka come un sonnambulo, impossibile resettare il cervello, impossibile dimenticare. Questo è il torneo più grande della storia del tennis italiano, e io ero lì a tre metri, roba che nemmeno nei sogni più assurdi.
La finale del giorno dopo, sempre in prima fila ma stavolta vicino a Mary Jo Fernandez, la vivo in totale “down” da tensione, potevano anche giocarsela a briscola se volevano, una festa favolosa in ogni caso. Ci renderemo tutti conto davvero di quello a cui abbiamo assistito tra anni, secondo me. Quando si parlerà di Pennetta e Vinci come adesso parliamo di Coppi e Bartali, di Rossi e Zoff, di Alberto Tomba e Valentino Rossi. Roba che succede tre volte a generazione se va bene. Sintetizza alla perfezione questa sensazione, e uno che ne ha viste così tante sa quello che dice, proprio il grande Ubaldo, con schiettezza da toscano: “Che cu*o, Luca. Io erano quarant’anni che aspettavo di vedere una cosa del genere, che cu*o che hai avuto.”
Davvero, direttore. Davvero.