Di Gianluigi Quinzi, classe 1996, si è parlato e si parla molto. Considerato la stella nascente del tennis azzurro, ha cominciato a praticare questo sport all’età di 3-4 anni con il maestro Antonio Di Paolo presso il circolo tennis di Porto San Giorgio, del quale il padre era presidente (e prima di lui il nonno). All’età di otto anni ha partecipato ai Campionati Americani giovanili in Florida, torneo denominato Little Mo in onore della mitica Maureen Connolly. Lì viene subito notato da un direttore dell’Accademia Bollettieri e successivamente riceverà una borsa di studio dallo stesso Bollettieri. Da allora la sua vita è cambiata: dopo l’esperienza in America si è allenato con Sebastian Vazquez, il suo ultimo coach è Giancarlo Petrazzuolo. Al momento la speranza del tennis italiano si allena ancora all’Accademia di Bollettieri in attesa di cominciare una nuova collaborazione con un coach. Il tennista marchigiano ha conquistato 6 titoli ITF, è stato numero uno nella categoria juniores e nel 2013 ha ottenuto il suo più grande successo: la vittoria al torneo di Wimbledon juniores. Però la sua carriera sembra progredire troppo lentamente (Gianluigi è ancora numero 340), soprattutto considerato i risultati raggiunti dal suo rivale di quella “storica” finale, Hyeon Chung, ormai alle soglie della Top50. Ubitennis lo ha incontrato per scambiare due chiacchiere.
Da bambino hai praticato diversi sport, tra cui lo sci, nel quale hai ottenuto un buon risultato e inoltre tua madre è stata nella nazionale di sci (oltre ad essere stata una campionessa nella pallamano). Cosa ti ha spinto a lasciare lo sci per il tennis? Cosa ti ha affascinato di questo sport?
Fondamentalmente, pur piacendomi molto lo sci, l’ho abbandonato perché – in virtù dell’esperienza di mia madre che si era rotta le ginocchia facendo una brutta caduta – ho capito che è uno sport pericoloso. E poi i miei genitori vedevano che nel tennis andavo molto bene e quindi alla fine ho scelto il tennis. Inoltre volendone fare un lavoro, meglio il tennis, lo sci sarebbe stato più complicato.
Tutti i fan del tennis italiano (e non solo) ti considerano l’astro nascente del tennis italiano. Senti il peso di questa, chiamiamola così, responsabilità?
Il peso si sente per tutto. Bisogna convivere con le pressioni. Io devo ancora fare tanto, sono solo all’inizio, però, anche nel mio piccolo, penso che bisogna saper gestire bene le pressioni, perché altrimenti non puoi giocare ad alti livelli. È così in ogni campo. Non bisogna aver paura di affrontare le responsabilità, perché se si affrontano bene, si diventa più forti e si acquista fiducia.
Il fatto che i tuoi genitori siano amanti dello sport, ti aiuta a superare i momenti di difficoltà o aumenta le aspettative che tutti hanno nei tuoi confronti?
I miei genitori mi hanno aiutato sempre. Li ringrazio tanto per avermi dato l’opportunità di praticare questo sport. Mi hanno aiutato anche dal punto di vista economico, dandomi la possibilità di andare in America e questo non è da tutti. Quindi li ringrazio moltissimo. Ovviamente anche loro vogliono che io vinca, però mi aiutano nei momenti di difficoltà.
Cosa pensi che manchi al tuo gioco per fare il cosiddetto salto di qualità?
In questo momento mi manca soprattutto la fiducia nello stare in campo. Purtroppo non sto vincendo molte partite e quindi sto perdendo un po’ di fiducia nelle mie capacità. Non è facile, per diventare forti bisogna allenarsi tanto. Però il bello di questo sport è che ogni settimana hai sempre un’opportunità in più. Ma adesso devo migliorare soprattutto mentalmente.
Cosa puoi fare per perfezionarti ogni giorno?
Penso che facendo le cose giuste e migliorando mentalmente, magari con un appoggio tecnico posso andare avanti, perché, stando senza allenatore, ho perso fiducia.
Nel corso della tua carriera hai cambiato diversi allenatori, sei passato da Tenconi a Petrazzuolo negli ultimi mesi. Ci sono stati problemi di tipo caratteriale o tecnico?
Dipende da ognuno. Adesso ho un buon rapporto con tutti. Non è facile per l’allenatore stare 24 ore su 24 a contatto con il giocatore per diverso tempo. Sono intervenuti diversi fattori, da quello mentale a quello tecnico. Un po’ tutti e due insomma.
A proposito di allenatori: all’età di 8 anni sei stato notato da Nick Bollettieri, che di recente ha anche parlato di te, consigliandoti di giocare più d’attacco. Nick ha scoperto tantissimi talenti (da Agassi alle sorelle Williams) e penso che la sua accademia sia tra le migliori nel mondo. In cosa ti ha aiutato? Quali pensi che siano le sue carte vincenti che lo portano ad essere uno dei migliori tecnici del tennis?
Nick Bollettieri in pochi minuti riesce a capire quello che sbagli e quello che non sbagli. È davvero molto bravo. Io lo conosco da quando ero piccolo, ho lavorato con lui all’età di otto anni: mi svegliavo alle quattro e mezza di mattina per allenarmi. Ora, ovviamente, non mi segue più, anche se io mi appoggio all’accademia, spesso vado lì ad allenarmi. Da bambino mi ha aiutato tanto perché si capiva che teneva a me. Vede subito le qualità che ha un giocatore, cosa c’è da perfezionare e impiega pochissimo tempo per far migliorare un tennista. Parla chiaro e ci mette tanta passione anche con ragazzini che magari non sono fortissimi. In quei quattro anni in cui sono stato con lui mi ha aiutato davvero tanto.
In virtù dell’esperienza con Bollettieri, pensi che le nostre scuole di tennis debbano prendere come modello l’accademia americana?
Questo non lo so. Non so dire quale possa essere la chiave vincente per il tennis italiano. Posso dire che, secondo me, in generale, non specificatamente in Italia, il tennis è uno sport in cui la parte mentale conta moltissimo: essere lucido, riuscire a sopportare le pressioni, non avere paura di entrare in campo e perdere. Tutto ciò fa la differenza. Certamente anche fisicamente bisogna essere preparati. Se si hanno queste due caratteristiche la tecnica si perfeziona più facilmente.
Al momento sei alla posizione 340 del ranking, ma hai ottimi margini di miglioramento. Secondo te cosa fa la differenza tra i primi 100 del mondo e gli altri?
I primi 100 sono tutti forti chiaramente. Rispetto a quelli come me, vincono perché sono più intelligenti tatticamente, sono più freddi nei momenti importanti, sono più maturi di me quando si trovano in campo. Anche fisicamente si allenano moltissimo, ore ed ore, e quindi si stancano di meno in partita. Rispetto ad uno come me hanno una tenuta mentale e fisica notevole.
Nel 2013 hai vinto Wimbledon juniores e hai regalato a noi amanti del tennis momenti molto emozionanti. Cosa ti ha lasciato quella vittoria e cosa è cambiato da quel momento?
Quella vittoria mi ha lasciato sorpreso: non mi aspettavo di vincere. Quell’anno volevo vincere uno Slam e mi sentivo in gran forma anche se avevo perso al torneo precedente, ma mi sentivo davvero bene, tanto che lo dissi anche al mio coach. Alla fine ho vinto Wimbledon e non ci potevo credere. Da quel momento ho acquisito tanta fiducia in me. Dopo ho cominciato a sentire la pressione perché tutti mi volevano come se fossi una star, anche se in realtà non avevo vinto ancora nulla. Infatti da lì agli ultimi due anni le mie prestazioni sono un po’ calate, non sono riuscito ad esprimere il mio tennis.
Quali obiettivi ti sei posto per l’inizio della prossima stagione? I tuoi sogni?
Giocare bene ed essere sereno. I miei sogni? Non so quanto sia realizzabile, ma vorrei vincere uno Slam.