Magic Moment Vinci, buona la prima cinese (Riccardo Crivelli, Gazzetta dello Sport)
A volte la realtà è fatta di risposte semplici. Da cosa si capisce lo stato di grazia di un tennista? Dalla percentuale al servizio e poi dal controllo e dall’efficacia del colpo più debole. Basta questa equazione a confermare che Roberta Vinci, dopo la straordinaria avventura degli Us Open, con lo stop a Serena Williams sulla strada del Grande Slam e la finale persa contro l’amica Pennetta, sta attraversando un momento di straordinaria fiducia, così prodigo di speranze non solo nell’immediato presente del Masters B in Cina, ma anche per il futuro prossimo di un 2016 da stella assoluta.
A dire il vero, il piccolo Masters per le qualificate dal 9 al 19 posto della Race stagionale (più una wild card) si chiamerebbe più pomposamente Wta Elite Trophy e dopo l’esperienza europea di Sofia è finito ad arricchire il calendario degli appuntamenti in Asia, continente con fame di tennis e tasche piene di bigliettoni, trovando ospitalità a Zhuhai fino al 2019. Regala tanti punti e tanti soldi e in questa edizione è stato appunto allargato a 12 giocatrici divise in quattro gironi da tre, con le vincitrici che accedono alle semifinali. Quest’anno, la presenza di regine di Slam (Venus Williams e Svetlana Kuznetsova) e di ex numero uno (la stessa Venus, la Wozniacki e la Jankovic) lo rende particolarmente intrigante, per questo il successo di Robi sulla Kuznetsova non è affatto banale.
Anche perché la potenza (spesso senza controllo) della russa può rappresentare un dilemma complicato per una virtuosa della racchetta come la tarantina. Che invece disinnesca Sveta servendo alla grande (89% di punti con la prima) e pizzicandola con il dritto, che per l’occasione non balbetta mai, dopo averle fatto girare la testa con quel rovescio liftato da maestra. Non a caso, è proprio un dritto a regalarle il break decisivo nel primo ed è ancora un dritto a chiudere la sfida dopo un’ora e mezza: «Sono molto soddisfatta del mio livello — confesserà la Vinci — non è stata un partita facile, lei è sempre un’avversaria dura e veniva dalla vittoria di Mosca, quindi era in grande condizione». Ora Roberta si giocherà l’accesso alle semifinali domani contro la Wozniacki, che intanto oggi incrocerà la russa. Caro è stata vittima sua malgrado di pirateria social, perché qualcuno ha violato il suo profilo Twitter e ha cominciato a tempestare la Bouchard di domande sul suo infortunio alla testa agli Us Open, tanto che la danese ha dovuto chiedere scusa. La semifinale per l’azzurra non sarebbe solo una questione di prestigio: vincendo il torneo, si avvicinerebbe addirittura alla top ten, anche se Venus, Suarez Navarro e Pliskova (peraltro già tutte vincitrici) sono messe meglio nell’inseguimento a un posto nelle dieci a fine stagione.
Intanto a Bercy dura solo 47 minuti la resistenza di Seppi contro uno scatenato Roger Federer. Che, soprattutto nel secondo set, non risparmia però qualche atteggiamento irridente ad Andreas, come un paio delle ormai celeberrime SABR (…)
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Gianni Clerici, la vita è una volée di rovescio (Claudio Giua, La Nuova Sardegna)
Cesare Garboli era impressionato: «Possiede l’impietosa arte del narrare oggettivo». Davanti al giudizio così definitivo del più eclettico letterato di fine millennio, gli editori italiani avrebbero dovuto aprire un’asta al rialzo per aggiudicarsi l’esclusiva dei successivi lavori di quel giovane autore stimato anche da Mario Soldati, da Giorgio Bassani, da Oreste del Buono, da Giovanni Raboni, gente che di libri s’intendeva. Macché. Il paese del perdonismo radicale non perdonava né perdona, a chi nasce giornalista sportivo, di volersi cimentare con il long writing e, magari, con il teatro. Era già accaduto a Gianni Brera, indiscusso numero uno del genere, che solo dopo il successo di “Il corpo della ragassa” (Longanesi, 1969) ebbe qualche riconoscimento dal mondo della cultura; Giovanni Arpino aveva invece rischiato l’espulsione dal circolo degli scrittori lauread per aver accettato di entrare nella redazione sportiva della Stampa; lo stesso isolamento ha patito Gianni Clerici, del quale Garboli tessé le lodi di cui sopra recensendo il suo romanzo d’esordio, “Fuori rosa” (Vallecchi, 1966).
Ben lontano dal lamentarsene, l’autore di “500 anni di tennis”, secondo Enzo Biagi il più celebrato long seller italiano all’estero dopo “La Divina Commedia” e “Pinocchio”, racconta con leggerezza di quell’ostracismo nella bio-eterografia (copyright Clerici) dal titolo “Quello del tennis” (Mondadori, 200 pagine, 20 euro), irragionevolmente preferito al lombardo “Quel del tenis” che avrebbe meritato di prevalere per le ragioni indiscutibili elencate nell’undicesimo capitolo. Ma è poco più di un passaggio, perché lo scrittore scappa via a ricordare il giovanile apprendistato tennistico all’Hanbury Tennis Club di Alassio, l’onirico dialogo con Hermann Hesse a Montagnola nel Canton Ticino, l’anno speso a seguire le infinite tracce lasciate dalla divina Suzanne Lenglen, le goliardate del Club Serpenton, i soggiorni a Londra e ad Austin, l’amicizia profonda con Ottavio Missoni. Di episodio in episodio, sul filo dell’ironia mutuata dall’amato P.G. Wodehouse emerge il talento da raccontato-re del figlio di Luigi, «nato nel 1899, al numero 2 di vicolo Bonola”, e di Lucia Castelli , “nata al numero 4 dell’attuale piazza Matteotti, nel 1905». Il luogo, come chiunque segua Clerici sa, è Como, dove «Luigi e Lucia ebbero modo di occhieggiarsi nel lontano 1926, o 1927, prima di sposarsi e fidanzarsi nel 1929, e infine riprodursi, ahimè una volta sola, lasciandomi figlio unico».
Si rassicurino le legioni di fedelissimi delle (pseudo)cronache di Clerici su la Repubblica e, prima, sul Giorno: nelle duecento pagine il tennis si prende talvolta la scena, come nei capitoli su Bud Collins e Nicola Pietrangeli, o come quando si dice di Frank Sedgman, australiano quasi coetaneo, nel 1952 finalista in tutti e quattro gli Slam e vincitore a Wimbledon e New York, dal quale Clerici venne malamente sconfitto al Foro Italico. 11 secondo match lo disputarono cinquant’anni dopo, e fu un doppio al Kooyong Lawn Tennis Club di Melbourne. Al termine, l’ ex campione, ammirato per la vivacità dell’antico avversario, gli propose di fare coppia in occasione dei vicini Mondiali per veterani. Dopo congrua riflessione, Clerici vergò un biglietto di scuse: calorose ma formali, perché la verità è che nulla gli appare «più triste delle gare tra veterani. Soprattutto quelli che veri campioni non sono stati, e si mostrano ancora avidi di una gloria appassita». Ho in tasca una lista di nomi ai quali dedicare queste due folgoranti righe.
Il tennis non è tuttavia il protagonista assoluto della bio-eterografia. Che è piuttosto la passione per gli incontri con notevoli contemporanei. Memorabile quello con Ernest Hemingway a Pamplona durante la Feria de San Fermín. Tanto straordinario da apparire frutto di fantasia («…conservo una foto con Hemingway scattata dal mio caro Gil de Kermandec», mette le mani avanti Clerici). Tutto comincia con il nostro che, casualmente seduto al caffè Txoko accanto allo scrittore americano, lo sente raccontare di Rafael Romero, notissimo toreador, e del suo rapporto quasi d’affetto con il toro Amigo, che poi l’avrebbe incornato e ucciso. Storia inedita che varrebbe da sola un film e della quale adesso Clerici s’impossessa: legalmente, giura, sulla base di un accordo verbale preso quasi sessant’anni fa con l’autore di “II vecchio e il mare” sulla barrera di San Fermin. Commedia mancata. A Milano, invece, gli capitò di proporre a Walter Chiari, mattatore della rivista e poi nei teatri oltre che amante invidiatissimo di Ava Gardner, una commedia scritta con Gianni Brera, maestro di giornalismo e bevute (…)