Aleksandr Dolgopolov (07/11/1988 Kiev, Ucraina)
Quando gioca un colpo dei suoi, che sia una smorzata carica d’effetto o un lungolinea di dritto in controbalzo, gli si increspano gli angoli della bocca in un sorriso furbesco che lo fa assomigliare al Gatto del Chesire di Alice nel Paese delle Meraviglie. E nel paese delle meraviglie ci va spesso questo ragazzo ucraino di 27 anni e quando si tuffa nella tana del Bianconiglio, ovvero quando è in palla, non ce n’è più per nessuno.
Per poco tempo forse, spesso non abbastanza a lungo per vincere ma in quei momenti ridicolizza chiunque gli stia di fronte, ivi compreso il monarca serbo di Belgrado che meno di tre mesi fa a Cincinnati è sembrato un fuscello nella tempesta prima di venirne in qualche modo a capo.
Nato sovietico, figlio di un tennista e di una ginnasta medagliata, Dolgo all’anagrafe ha il nome del padre, Oleksandr, e lo segue fin da piccolo nella sua attività di coach e allenatore, fra gli altri di Andrej Medvedev. Alex racconta “…pur di tenere tranquillo questo bambino loro giocavano con me. Ed era un gran divertimento colpire palline con gente come Boris, André e Jim”. Mettete voi i cognomi.
Con leggerezza potremmo dire che se la teoria dell’ Imprinting di Konrad Lorenz funziona e questi erano i primi modelli si spiegano tante cose…
Innanzitutto la fiducia in sé stesso.
Dolgo è convinto di poter battere chiunque e quindi gioca per vincere. Non per fare bella figura o lottare sapendo di non farcela. Vincere. E vincere a suo modo, con il suo stile come i grandi.
Quale sia il suo stile possiamo chiederlo a Jo Wilfried Tsonga, che lo affrontò al terzo turno degli Australian Open 2011. All’epoca Alex, pro dal 2006, aveva 22 anni ed era n° 46 del mondo mentre il venticinquenne Jo era n°13 ma finirà la stagione al sesto posto giocando e perdendo solo al terzo una gran finale al Masters di Londra contro Federer. Bene, Tsonga vince 6-3 il terzo, è avanti due set a uno ma appare perplesso. E ne ha ben donde.
Vincerà solo due dei seguenti quattordici giochi, sommerso da una gragnuola scintillante di servizi illeggibili, palle corte, accelerazioni e dolci cross corti e coperti.
Il punteggio finale è 3-6 6-3 3-6 6-1 6-1 con il pubblico della Rod Laver Arena a ritmare una hit del tempo “Who let the Dogs out”. Da allora il nickname di Alex è “The Dog”, in ricordo di quel momento.
Fa fuori anche un tipo come Robin Soderling prima di arrendersi ad Andy Murray che andrà in finale.
Perché uno così non è ospite fisso al gala londinese di fine anno? Perché è incostante, e non solo per colpa sua.
Dolgo ha una malattia del sangue dalla nascita, la sindrome di Gilbert e questa patologia comunque benigna provoca periodi di febbre, stanchezza, difficoltà persino a camminare.
Si può tenere sotto controllo ma può presentarsi all’improvviso nei periodi di grande stress.
In più Alex è un gaudente, sempre disponibile e alla mano, con un gran seguito sui social media forse perché è facile per molti identificarsi col suo modo scanzonato di giocare e vivere.
È proprio questa tendenza ad allontanarlo dal padre, suo primo allenatore, nel 2009 e a portarlo a scegliere Jack Reader, coach giramondo australiano, ex pro con un figlio nato a Rovereto.
Il biondo Jack non ha niente in comune con la severa metodicità del padre, “sembrava che in campo fosse perennemente con una mano sulla racchetta e l’altra sulla schiena di una ragazza” si diceva di lui.
Reader però trova la chiave giusta, libera il talento di Alex spingendolo a seguire maggiormente il suo istinto, utilizza allenamenti di scioltezza articolare e per il suo compleanno gli regala una tavola da surf.
Dolgo non parla più col padre, muta il suo nome in Alexandr e il lavoro col nuovo coach dà buoni frutti, il gioco migliora, il cammino che lo porterà ad arrivare alla tredicesima posizione mondiale nel gennaio 2012 è iniziato.
“Mi ha insegnato a godermela” ricorda The Dog e nelle stagioni seguenti i due girano insieme il circuito dei tornei a modo loro. Una volta si sciroppano 850 km e dodici ore di auto per andare da Kiev a Mosca. A Dolgo piace guidare, se non avesse fatto il tennista avrebbe fatto il pilota di rally e la macchina era una Subaru.
Immaginate voi il viaggio. Nella primavera 2011, alla volta del Roland Garros Reader, non si sa se per parsimonia o scherzo, acquistò due biglietti aerei da Nizza a Parigi usufruendo di uno sconto per coppie gay. Al bancone della compagnia aerea i due finsero qualche moina per avvalorare la farsa…
In ultimo, paradossalmente, anche il suo talento può essere un limite e sono parole sue quelle che chiariscono meglio il concetto.
“Io non sono capace di giocare d’attesa. Non posso aspettare le mosse dell’avversario e non mi piace correre come un pazzo lungo la riga di fondo. A me piace prendere rischi, giocare d’attacco, servire e scambiare veloce, andare a rete e fare palle corte”.
E ancora: “Il mio non è uno stile facile, devo colpire la palla perfettamente. Quando le sensazioni non sono buone, con il mio gioco rischio di perdere anche il più facile degli incontri”.
Ecco spiegati i colpi ping-pong con i piedi perennemente avvitati alla riga di fondo per rubare tempo, quei rovescini tagliati con la palla che rimbalza un metro e mezzo di lato, il servizio colpito in anticipo che Nadal dichiara di non riuscire mai a leggere. E Nadal in risposta se la cava.
Comunque sia due soli titoli (Umago 2011 e Washington 2012) uniti a quattro finali raggiunte sono molto poco per cotanto talento ma si può ben sperare perché dopo la separazione da Reader nel 2012 il genio di Kiev è tornato sotto l’ala paterna da poco più di un anno. Nel 2015 ha iniziato da n°23, salvo poi precipitare all’80° posto a maggio e piazzarsi ora, intorno alla trentaseiesima posizione.
Se la condizione fisica lo sorreggerà è un top ten sicuro. Oddio, di sicuro con uno così c’è ben poco ma proprio per questo quando scende in campo conviene sempre dare un’occhiata.