Un istante dopo il match point che chiudeva il tiebreak del quarto set tra David Goffin e Federico Delbonis, qualificando il Belgio alla sua seconda finale di Coppa Davis – anche se sul valore del tennis pre open (e anche post, molto spesso) meglio sorvolare – si sono immediatamente alzati gli alti lai di strani personaggi che circondano il circo del tennis autonominandosi custodi della tradizione. Nientemeno. Costoro lamentano la decadenza di una competizione che – udite udite – non ha mai visto partecipare tutti insieme i 4 fab Four dell’era contemporanea e che ormai da chi dice 5, chi dice 10, chi dice 50 anni è senza nessun significato. Altri custodi della tradizione – è impressionante quanti ce ne siano in giro – sostengono che potranno anche giocarla gente che passerebbe a stento un turno in un “250” ma il “fascino” rimane lo stesso inalterato. Volete mettere il patriottismo o più modestamente la possibilità di giocare non per sé stessi ma per un gruppo, un team, una nazione appunto? Lasciamo perdere anche il paradosso di un periodo che a tutto sembra dare cittadinanza tranne che a forme di mobilitazione collettiva, con l’inevitabile eccezione delle commozioni istituzionalizzate, e che improvvisamente si riscopre collettivista e vediamo di osservare da vicino queste due posizioni.
Cominciamo dalla prima. Davvero c’è una decadenza della Coppa Davis? È forse esistito un periodo dell’oro che nessuno ha mai visto e quindi se ne prova misteriosa nostalgia? Purtroppo il primo gruppo di custodi della tradizione non è particolarmente preciso e si appella a nomi che sono diventati mitologici tra alcuni anzianotti giocatori di club e un paio di anziani giornalisti dell’epoca d’oro del tennis della riviera ligure. I tennisti che davano lustro a questa Coppa Davis sono (sarebbero) eleganti gentiluomini, ovviamente upper class, che sorseggiano whisky tra un punto e l’altro e che giocano solo quando hanno voglia. E quando hanno voglia sono i più bravi di tutti, non solo dei contemporanei ma anche di quelli che verranno dopo di loro, inevitabili parvenue costretti a inseguire traguardi sempre più assurdi per assurgere al ruolo di chi è degno degli aristocratici del passato. Il risultato è che è del tutto impossibile capire bene a chi si riferisce questo primo gruppo. Quale coppa Davis andava bene? Quella dell’imbattibile Tilden dei primi anni ’20? Quella dei 4 moschettieri che Tilden riescono a sconfiggerlo, permettendosi il lusso di andare fino a casa sua a batterlo accettando la sfida che amava rivolgere agli avversari (“vengano qua a sfidarmi se hanno il coraggio”)? Quella del predecessore di Andrew Barron Murray, Fred Perry? Quella di Hoad e Rosewall degli anni ’50? Quella di Artur Ashe dei primi anni ’70? Quella dell’orso svedese capace di vincere quasi da solo (ma sì sì lo sappiamo: quasi. Siamo fortissimi nelle statistiche inutili che credete?) nel 1975? L’Italia di Panatta e Bertolucci? Il dream team svedese degli anni ’80? Quella di Sampras e Agassi a Palermo in un piovosissimo marzo palermitano? Quello dei terraioli spagnoli dei primi ‘2000? Insomma qual è questa età dell’oro della Davis che, scendendo giù per li rami, tocca il fondo con la partecipazione di David Goffin?
In fondo questa indeterminatezza gioca a favore di quel secondo gruppo di attempati custodi. Chi se ne importa di Bemelmans o di Edmund, di Ward o di Coppejans, la coppa Davis è sempre stata così. Non è forse vero, per restare ai giorni nostri (ehm) che Borg vinse la Coppa Davis giocando contro uno che non era neanche nei primi ’50? E McEnroe nel 1978 non aveva forse di fronte John Lloyd, famoso per essere il signor Evert più che per il suo numero 66 del ranking? E l’altro non era forse Buster Mottram, misteriosamente diventato fortissimo col passare degli anni ma che insomma valeva forse, ad essere generosi, il povero Goffin? E anche qui continuando continuando, il dream team svedese ok, ma suvvia Krishnan non entrava nei primi ’50 e Armitraj nei primi duecento, roba che se lo viene a sapere Coppejans comincia a querelare chiunque gli si avvicini. E poi Fromberg, gli slovacchi, in fondo in fondo Gaudenzi e Sanguinetti…
No, non è una storia di grandi campioni la Coppa Davis. Eppure le avete viste le scene di giubilo, le dichiarazioni un po’ sopra le righe, di chiunque finisca per vincerla in un modo o nell’altro. Alcuni sosterranno che è perché siamo alla fine della stagione e non vogliamo rassegnarci al fatto di non vedere più grande tennis per 30 giorni. Altri che la verità è che questa competizione non conta niente e non è mai contata niente. Altri ancora che a decidere cosa conta e cosa no, alla fine, sono i giocatori. E noi? Noi siamo dei rozzi materialisti, raccontiamo partite e ci limitiamo a dire che se il numero 2 del mondo gioca contro il numero 16 non c’è santo che tenga: vince il numero due 90 volte su 100. E quelle dieci volte che perde non è per nulla correlato ad un particolare tipo di competizione. Le sorprese non sono più facili in Coppa Davis che a Wimbledon, al Roland Garros o dove volete voi. Ecco l’unica leggenda che forse ha qualche interesse sfatare. Il resto, come sempre, è solo tennis.