Si è conclusa domenica a Gent in Belgio l’ultima edizione della Coppa Davis con il trionfo “storico” della Gran Bretagna, che non aveva più vinto la famosa “insalatiera d’argento” dal 1936, 79 anni fa grazie ai mitici Bunny Austin e Fred Perry (che era un tennista capace di vincere Wimbledon per tre anni consecutivi dal 1934 al 1936, e non è quindi solo una maglietta con l’alloro come i giovani di oggi potrebbero credere, così come possono credere che Lacoste sia una maglietta con il coccodrillo e non uno dei più forti tennisti francesi degli Anni Venti).
In realtà più che la Gran Bretagna questa vittoria storica che ha fatto precipitare in Belgio 60 giornalisti britannici della carta stampata e un centinaio di “televisivi” fra BBC ed Eurosport, l’ha ottenuta una famiglia scozzese, i due fratelli Andy e Jamie Murray.
Il primo protagonista imbattuto lungo tutto l’anno di 8 singolari e 3 doppi, il secondo partner del fratellino più giovane di un anno ma immensamente più forte, come dimostrano due Slam in bacheca, fra cui il Wimbledon 2013 (più l’US Open 2012), l’oro olimpico colto a Londra 2012 e l’attuale posizione in classifica mondiale ATP, la n.2 alle spalle dell’insuperabile serbo Novak Djokovic di questo forse irripetibile 2015.
In singolare la Gran Bretagna non è riuscita a schierare che il n.100 del mondo, il giovane Kyle Edmund, 20 anni e battuto due anni fa (6-4, 6-4) in semifinale al torneo junior di Wimbledon dal nostro Gianluigi Quinzi. Anche nel ’74 Bjorn Borg, come Andy Murray, aveva vinto la Coppa Davis praticamente da solo, perché il suo compagno il gigantesco Ove Bengtson, 1 metro e 96 cm, non era un top100.
Ma più gli anni passano, più si allarga la base dei tennisti, e meno ha senso che quel che viene definito il campionato del mondo a squadre possa essere deciso da un solo giocatore, bravo quanto Bjorn Borg o quanto Andy Murray.
Quando nel 1900 la Coppa Davis, dal nome del suo ideatore Dwigth Davis, visse la sua prima edizione sono cambiate molto le cose. La Davis ha conservato il suo fascino, ma non rispecchia certo i valori mondiali del tennis. Gli stessi giocatori più forti la giocano per prestigio soltanto fino a quando riescono a vincerla, ma poi quasi sempre se ne distaccano. Il Belgio quest’anno è arrivato alla finale, con il n.16 del mondo Goffin e il n.108 Bemelmans, grazie al fatto di aver giocato sempre in casa e contro avversari che il più delle volte hanno schierato le riserve. La Svizzera detentrice del trofeo grazie alla presenza un anno fa di Roger Federer e Stan Wawrinka, quest’anno a febbraio aveva schierato giocatori classificati oltre il ducentesimo posto. Con il Canada al turno successivo di nuovo erano mancati i migliori, Raonic e Pospisil.
Ora tutti i Fab Four, Djokovic, Murray, Federer e Nadal, più Wawrinka, la Davis l’hanno già vinta e vedrete che raramente li rivedremo – o più probabilmente mai – in campo per tutte le quattro settimane che richiede la formula del World Group riservato alle 16 squadre di elite dal 1982 a oggi.
Loro puntano a vincere il maggior numero possibile di Slam, ora che la Davis l’hanno già conquistata. E allora è giunto il momento di pensare ad una riforma della stessa. Perché, a meno che la Federazione Internazionale del nuovo presidente David Haggerty si accontenti di vedere raggiungere la finale a squadre di secondo piano senza nessuno delle big star, con i media dei Paesi non coinvolti del tutto disinteressati, o si fa qualcosa o la gente quando sentirà parlare di Campionato del mondo a squadre fra team che schierano quale n.1 il 20 del mondo e quale n.2 il 50 o peggio, non la prenderà più sul serio.
Le vittorie in questi ultimi anni della Serbia di Djokovic, della Spagna di Nadal, della Svizzera di Federer e Wawrinka, e ora della Gran Bretagna di Murray, hanno mascherato la situazione.
Ma ora il bluff non potrà più durare. Per prima cosa, senza magari tornare al famoso Challenge Round che esisteva una volta (fino al 1971 compreso) – quando la squadra detentrice della Coppa disputava, come nella vela per l’America’s Cup soltanto la finale contro chi era emerso fra gli sfidanti – ritengo che la squadra detentrice dovrebbe essere esentata almeno dal primo turno e forse anche dal secondo.
Perché non ha senso che chi la vince a fine novembre o ai primi di dicembre, rischi già a febbraio di essere fuori dai giochi. Un team campione del mondo non può esserlo per 2 mesi soltanto. Nel calcio lo si è per 4 anni, così come nella maggior parte degli sport. Nel ciclismo si indossa la maglia iridata almeno per 12 mesi.
Sono certo che se ai vincitori di una Davis si chiedesse di giocare soltanto due weekend all’anno, e non quattro affrontando spesso disagevoli trasferte e cambi di superficie che possono compromettere tutta una programmazione, vi si presterebbero. Penso a Federer e a Wawrinka quest’anno, ad esempio. La federazione internazionale insiste nel voler far disputare la Coppa Davis ogni anno. Senza capire che così facendo la svaluta. La si giocasse ogni due anni la valorizzerebbe maggiormente. Anche se è vero che molte nazioni minori la Davis è la sola vetrina per promuovere il tennis e farlo ogni due anni, magari perdendo al primo turno, potrebbe significare far sparire il tennis dal proprio orizzonte per due anni. Probabilmente si dovrebbe preservare la disputa annuale per le serie inferiori, ma con le 16 squadre più forti che dovrebbero invece giocare ogni due anni. Ciò anche perché chi dimostra di non sopportare le quattro settimane l’anno di impegno Davis sono i big, le star. Non i comprimari che anzi grazie alla Davis hanno l’opportunità di mettersi un po’ in luce, di far parlare di sé almeno a livello nazionale.
Se la Davis deve diventare un vero campionato del mondo occorrerebbe allargare il numero degli incontri a più giocatori. Se, ad esempio, quest’anno avessero dovuto schierare tre giocatori, o addirittura quattro, per quattro singolari, in finale non sarebbero mai arrivati Gran Bretagna e Belgio.
Infine un’altro problema è proprio quello della finale. Ricordo quando nel 2005 andai a Bratislava per seguire la finale fra Slovacchia e Croazia. Beh, fuori da quei due Paesi l’incontro non interessò quasi nessuno. Negli Stati Uniti, in Africa, in Asia, in Sud America, in Australia, a malapena i giornali pubblicarono flash-news di poche righe con il risultato di chi aveva vinto. Con la popolarità internazionale che ha raggiunto il tennis, forse dopo il calcio, lo sport universalmente più praticato, questo è un vero peccato. Qualcosa va fatto perché anche il tennis abbia una fase finale, tipo campionato del mondo di calcio, di rugby, che concentri su di sé l’attenzione di almeno 4/6/8 nazioni leader per meriti tecnici e non per la fortuna legata ad una serie di sorteggi casalinghi. Altrimenti questa Coppa Davis rischia di non avere più molto significato. E sarebbe un gran peccato.