Non c’è dubbio che il Kid di Las Vegas abbia scritto pagine e pagine della storia del tennis, rivoluzionando questo gioco (seppur non da solo), diventando probabilmente il primo vero grande ribattitore, l’antenato dei vari Djokovic e Murray per capirsi. Un anticipo unico, una rapidità spaventosa, per non parlare del personaggio: a nessun timido amante o mero osservatore di questo sport saranno sfuggiti i pantaloncini di jeans, gli orecchini, i colori sgargianti sia dei suoi “capelli” che dei suoi completini. Potremmo continuare quasi all’infinito con gli scontati elogi e i ricorsi storici del caso, tuttavia inutili.
Le pagine più importanti della sua carriera rischiano però di diventare quelle della sua autobiografia, in cui, come è noto, ha dato libero sfogo alla sua personalità controversa, non ricorrente per uno sport comunemente riconosciuto come nobile.
Andre odiava il tennis e odiava ancor di più il fatto di non aver avuto scelta. Odiava essere dotato di questo enorme talento, un dono, una responsabilità morale verso questo sport e verso suo padre che aveva programmato la vita dei suoi quattro figli ancora prima che nascessero, in nome di un sogno rimasto in un cassetto in Iran (il paese dove Mike Agassi è cresciuto) per tutta la vita.
Quello che al momento della pubblicazione del libro sembrava un evento isolato, ha fatto aprire gli occhi al mondo, ricordandoci che anche i tennisti sono esseri umani e non macchine. Indirettamente potrebbe aver dato la forza ai vari Fish e Gil di rivelare i disturbi psicologici di cui hanno sofferto e che hanno nascosto a lungo. Inutile chiedersi il perché; ognuno avrà le sue valide e indiscutibili motivazioni e nessuno in questa sede vuol fingersi psicanalista, a quello ci pensa già Sergio Castellitto. La nostra curiosità volge piuttosto su un fronte totalmente diverso. Quanti dei colleghi di Agassi si saranno riconosciuti nelle sue parole? Qualcun altro come lui odierà il tennis?
Beh non tutti saranno così coraggiosi da confessarlo, ma noi, per puro passatempo, potremmo far lavorare l’immaginazione e fare le nostre ipotesi. Perché non cominciare dal francese Benoit Paire, un amante della vita e del divertimento che non sempre fa del tennis la sua priorità? Ama venire a giocare in Italia per il cibo (la mozzarella di bufala è la prima cosa che ordina quando viene nel Bel Paese), prima di un incontro quasi non si riscalda e quando gioca un torneo passa meno tempo possibile al circolo, preferendo una vita più mondana a quella classica di un atleta. Il tennis è sicuramente la sua passione, la cosa che più gli piace fare, ma forse, come lui stesso ha ammesso, anche una vita da coach non gli sarebbe dispiaciuta, una vita più marginale, con meno aspettative sul suo conto, meno da dimostrare. Non a caso il suo idolo tennistico è sempre stato Marat Safin, altro papabile candidato per questa lista. Tante le similitudini tra i due, anche se forse Paire non perderà mai una finale slam per aver festeggiato troppo la sera prima, ma chi lo sa… nessuno è indovino.
Molto amico di Paire è Fognini, altro personaggio dal braccio d’oro e dalla mano fatata che a volte dà l’idea di voler essere in tutt’altro posto piuttosto che su un campo da tennis. E che dire del belga Xavier Malisse, semifinalista a Wimbledon nell’edizione del 2002 vinta da Lleyton Hewitt, l’ultima prima dell’era Federer? Anche lui non mirava di certo a una vita di totale dedizione e abnegazione al tennis.
Guarda caso si tratta di giocatori accomunati da un talento straordinario che cozza con una personalità spiccata, estroversa. Il cosiddetto “Genio e Sregolatezza”. Artisti prestati al mondo della racchetta, folli, enfant prodige, predestinati. Definiteli come meglio credete. Sono uomini comuni che sentono di dover rispettare un piano che qualcun altro, al loro posto, ha disegnato. Allora combattono, lottano, si dimenano, urlano, sempre contro un unico nemico, ovvero se stessi, maledicendo il giorno in cui hanno preso la racchetta in mano.
Di questi giocatori si dice che non abbiano sfruttato o non sfrutteranno mai al massimo il loro potenziale, che avrebbero potuto vincere molto di più se solo avessero mantenuto uno stile di vita più sobrio, evitando tutte le mattate, le “cassanate” per dirla in termini calcistici, gesti inconsulti, spaccando meno racchette, eliminando cioè la sregolatezza, conservando intatto il genio. Tanti invece, così come loro stessi, credono fermamente che tutto quello che hanno ottenuto (compresi gli otto slam di Agassi e i due di Safin) e che otterranno sia dovuto proprio alla loro follia, all’impulsività, al fatto che abbiano sempre dato retta al loro istinto senza grossi freni inibitori. D’altronde lo diceva anche Aristotele: “Non esiste grande genio senza una dose di follia”. Come dargli torto. Quanti scrittori del novecento hanno condotto vite al limite dell’inverosimile, vite fatte di droga, disturbi psicologici e alcool, dando però alla luce opere d’arte indelebili. È ovvio che sia doveroso fare le dovute proporzioni in questi paragoni eccezionali, è bene esser chiari.
Ma poi, diciamo la verità: quanti di noi, che si tratti di agonisti, amatori, pallettari, campioni di pittino, doppisti della domenica mattina o umili operai della racchetta, si sono un po’ rivisti in qualcuna delle sensazioni ed emozioni di Agassi? Quante volte il diritto proprio non andava e le fitte alla schiena non vi davano tregua e avete detto “basta, non ci vengo più! Per un po’ è meglio se smetto”. Nessuno ci crede mai fino in fondo. E così il giorno dopo siamo di nuovo lì, su quello stesso campo, a remare come disperati. Siamo tutti un po’ Agassi nel profondo, ma ora non montiamoci la testa.
È lo sport del diavolo, quello maledetto dove tutto dipende da te, la metafora sportiva più vicina alla vita, un continuo confronto con se stessi, una battaglia emotiva che ti sconvolge le interiora e ti prosciuga le energie mentali. Ma allora perché ne siamo innamorati?