Sono anni di transizione, quelli. Gli attrezzi in legno hanno appena ceduto il passo ai nuovi materiali, la velocità della palla trasfigura il tennis, una nuova era si sta aprendo. È in quest’epoca di brutale passaggio che il nostro gioco vede apparire, all’improvviso, due mancini visionari, in cui la componente pura del talento sembra prevalere su qualsiasi altro aspetto. Si direbbe che essi siano ontologicamente talento, e che non si potrebbe usare, per descriverli, qualsivoglia altra definizione che si allontani dai confini, nobili e ristretti, del talento. Della mano sinistra del genio americano si è detto tutto. Forse l’anomalia più sublime nella storia dello sport mondiale. Ma qui si parla dell’altro mancino, quello meno vincente, meno costante, eppure altrettanto sontuoso nelle esplosioni repentine di un gioco che non esiste e nelle manifestazioni furiose di una classe pura debordante. Qui si parla di Henri Leconte.
Già dall’aspetto fisico si capisce che non si tratta di uno qualsiasi: le gambette esili e sottili, il sedere appena accennato, la muscolatura poco sviluppata, quel filo di pinguedine sui fianchi larghi. Tutto fa pensare a mondi lontani dallo sport professionistico. Eppure il volto fiero, quei tratti latini da attore consumato, o da avventuriero di romanzi d’appendice, non possono che ridestarti dalla prima, erronea, impressione, e convincerti che invece, quell’uomo, ha qualcosa di grandioso nel destino. È nato per il tennis. O meglio, per diffondere una certa idea di tennis. Tecnicamente siamo lontanissimi da ogni ortodossia. La racchetta, sempre accordata con tensioni bassissime, è un prolungamento effettivo della mano sinistra. Nulla di letterario in questa espressione, è proprio così che vanno le cose. Il corpo accompagna molto poco, le posizioni frontali sembrano prevalere. Siamo oltre i confini dell’eresia, tutto è braccio, un’impugnatura che nulla concede alle rotazioni, un tennis che vive di toni classicheggianti, eppure sempre declinati con personalità e rivisti con uno stile che non può passare inosservato.
La bellezza dei gesti è a tratti sconvolgente. A volte sembrano quasi prevalere accenti naif, ma in realtà il canone estetico non degrada mai, sia a rimbalzo che nei sublimi colpi di volo. Purtroppo tutto è in equilibrio precario, il suo è un tennis che non concede nulla all’attesa, al palleggio, alla transizione. È un tennis estremo, visionario, il rischio non è una possibilità, ma l’unica regola possibile. Leconte vive del rischio, si direbbe che ne è schiavo. E quando arriva l’errore deve essere clamoroso, il braccio va fuori giri senza compromessi, la palla vola fuori senza discutere. Si narra che, fin da bambino, il giovane Henri frequentasse con i suoi colpi piatti i teloni di fondo campo più che le righe che segnano il campo. I maestri storcevano il naso, l’unica a crederci era la madre, sempre pronta ad incoraggiarlo. Perché la signora Leconte aveva scorto l’essenza dietro l’apparente caos del suo talentuoso erede. Quel suo tennis era già tutto lì, presente. Si trattava solo di togliere il superfluo, di sgrassare. Come nella poetica michelangiolesca, il suo gioco esisteva già, nella sua testa, in una ipotetica incubatrice. Era pronto a mostrarsi al mondo, una volta eliminato il superfluo. La racchetta al posto dello scalpello, limare, togliere, non aggiungere. Il risultato ha saputo essere folgorante. Non sempre, certo, le pause non sono mai mancate, ma certe vette sapevano essere davvero uniche, certi tocchi provenivano direttamente da un genio che non esiste, certe ispirazioni superavano i confini dello sport e appartenevano a pieno titolo al mondo bizzoso dell’arte.
Le partite di Leconte non sono semplici partite, ma romanzi complessi, fatti di fabula e intreccio, momenti di esaltazione e scoramento, noia, dolore, esplosioni improvvise. Già il tennis è in realtà un romanzo ambientato in un campo da gioco con righe di demarcazione, ma nel caso di Leconte tutto si amplifica, si estremizza. Il campionario delle facce o degli sguardi è infinito, nessun attore, per quanto consumato, avrebbe potuto fare meglio. Il pubblico si identifica appieno, soffre insieme a lui, a volte sembra diventare un protagonista, al pari dell’antico coro nella tragedia greca. Raramente si è potuto ammirare una simile empatia, un abbraccio così totalizzante con lo spettatore. In alcuni tornei francesi ogni singolo tifoso sugli spalti sembra essere parte attiva del gioco, senza barriere né corpi intermedi. A volte tutto ciò prende le forme di una magia. I risultati, come sempre, non mentono, ma riproducono fedelmente la storia del talento transalpino. L’eccellenza non gli appartiene, non può appartenergli, ma alcune perle restano sullo sfondo a illuminare una carriera comunque notevole e che avrebbe certo potuto segnare qualche acuto in più se non fosse stata funestata da infortuni in serie. Il punto più alto è forse la finale di Coppa Davis del 1991. Lì un Leconte in giornata di grazia, baciato dagli Dei, mette da parte pause e passaggi a vuoto, sfodera una partita lussuosa e liquida un Pete Sampras ancora giovane ma già campione. Davanti al suo pubblico, e non sarebbe potuto essere altrimenti, regala l’insalatiera alla Francia alzando l’asticella del suo folle gioco, una meraviglia.
L’apoteosi della sua arte risiede però nel Roland Garros 1988. Quell’anno ogni parigino sembra volerlo spingere al successo nel torneo di casa, ad ogni partita il suo sconclusionato romanzo si arricchisce di pagine nuove, tutto, anche l’afflato divino, fa pensare al lieto fine. Fino alla finale. Si dice spesso che il contrasto di stili sia uno dei maggiori punti di fascino del nostro sport, ciò che davvero colora di epica lo scontro di due individualità, prima ancora che di due atleti. Ma qui si va ben oltre, qui stiamo parlando di Mats Wilander. Si può pensare al giorno e alla notte, alla plastica rappresentazione dell’ossimoro, ma in realtà le differenze fra i due sono così marcate da far giungere al sospetto che si stiano dedicando a discipline diverse l’una dall’altra. Leconte gioca il suo tennis poetico e folle insieme, lo svedese sembra invece interpretare un altro sport che ha in comune col primo solo quel campo in terra battuta, la rete e le righe bianche a disegnarne i confini. Da subito il nostro mancino avverte la sgradevole sensazione di giocare contro un muro. Certo, i colpi da far saltare sulla sedia non mancano, all’inizio srotola tutto il campionario di magie, ma presto chiunque mastichi un po’ di tennis si accorge che quelle gambette agili ributtano sempre la palla, che il punto va fatto tre o quattro volte, che il destino è segnato. Leconte comincia a cedere, si arrende, litiga con il suo pubblico, si chiude lì. L’unica finale di un torneo Slam, non ci sarà mai l’occasione di una rivincita.
Forse è il racconto di un’incompiuta, di un non finito, ma il fatto è che quella mano sinistra sapeva davvero creare colpi degni dell’altro genio, quello americano, e anche in personalità aveva poco da invidiargli. Ci sono stati dei picchi che sostavano a quei livelli lì e quelli non si possono dimenticare. Leconte è estraneo ad ogni continuità, così come un artista rifiuta una qualsivoglia forma di produzione seriale. Poi, certo, il tennis è fatto di tanti punti, uno sull’altro, e di molti incontri, e di lunghe stagioni. Sa essere crudele, il tennis. E allora, uno così, è fregato in partenza.
Ma quei momenti, certi colpi, andavano ricordati.
Riccardo Urbani