Che si tratti di Camila Giorgi, Fognini, Nadal, Federer, calcio, ciclismo, atletica, doping, scommesse, giornalismo e telecronache, Rino Tommasi ha sempre la risposta giusta. L’intervista a uno dei più grandi giornalisti italiani, un colloquio con un grande uomo di sport, un ex atleta che tutti i tennisti hanno imparato a conoscere come il custode dei numeri.
Al telefono, quando ci invita a casa sua, è sempre gentile, anche quando cambia l’orario in extremis. “Mia moglie ha invitato i figli per colazione – sarebbe il nostro volgare pranzo ndR – e io non lo sapevo, facciamo nel pomeriggio?”. E quindi raggiungendo il cuore dei Parioli, Roma, dove il parcheggio è cosa preclusa se non si ha il Burgman o la Smart che dominano le strade di piazza Euclide, entriamo nell’elegante casa di Rino. Libri, libri e ancora libri, che arrivano fino ai soffitti, altissimi in queste case d’epoca tutto legno alle pareti e tappeti in terra, con l’argenteria in bella mostra. Ci attende sull’uscio del suo studio, mentre noi attraversiamo lentamente il lungo corridoio, attratti dalle foto sulle pareti, la storia della vita di Rino. Ci viene incontro. “Quello è Henry Kissinger, eh”, ci dice orgoglioso, mentre lo sguardo si sofferma sulla foto che lo ritrae mentre intervista l’ex segretario di stato USA, colloquio che gli valse anche un premio. Tutte le foto sono in bianco e nero e lo ritraggono praticamente con tutti gli sportivi più importanti, ma anche con personaggi dello spettacolo italiano. A colori, spicca quella di un Boris Becker giovanissimo che gli sorride mentre lui lo intervista. In basso, c’è la foto che lo ritrae assieme a Clerici e Scanagatta con un Roberto Lombardi sorridente. “Eravamo a Melbourne lì”, ci dice, mentre sorride con lo sguardo tenero verso l’amico che non c’è più. Ci accomodiamo di fronte a lui nel suo studio, con la scrivania invasa di appunti e libri a dividerci. Ha da poco dato alle stampe un libro sul pugilato, “Muhammad Alì. L’ultimo campione. Il più grande?”, ma, chissà perché, non ci sorprende affatto saperlo a lavoro su un nuovo progetto (“parlerà della scomparsa delle squadre di calcio della provincia”).
DOPING E LIBERALIZZAZIONE
Partiamo subito con la questione doping, rilanciata di recente dalle parole del papà di Camila Giorgi, il quale ha dichiarato che nello sport si dopano tutti e allora tanto varrebbe legalizzare il doping. Rino è un antesignano della teoria, non convintissimo però. “È una questione delicata nel senso che, da un certo punto di vista sarei per il rigore, e quindi non appena uno sgarri, anche se per piccole quantità, non lo farei giocare più. Ma sono anche convinto che se li controlliamo tutti non gioca più nessuno. Non ho mai quindi deciso di prendere posizione e non perché non voglia. Io, quando ero giovane ma anche adesso che non lo sono più, non ho mai messo in bocca una sigaretta e comunque quando gareggiavo non mi sarei mai aiutato in alcun modo. Il problema per me è economico: controllare tutti è impossibile. Se lo facessimo per tutti, rigorosamente, non se ne uscirebbe più”. Se per ipotesi il doping venisse legalizzato, ci sarebbe poi la corsa ad accaparrarsi i medici migliori no? “Sì, per paradosso potremmo avere le finali dei tornei giocate direttamente dai medici”, ci risponde sorridendo. “È ovvio che da un certo punto di vista vorrei essere spietato nei controlli e quindi nei provvedimenti, le squalifiche, però mi rendo conto che in questo modo forse si paralizzerebbe l’attività. Non ho idea esatta della diffusione del fenomeno, ma mi pare che si stia allargando sempre di più”.
Qualche tempo fa è uscito un libro, “Campioni senza valore”, edito da Sandro Donati, ex atleta e responsabile del mezzofondo per la Fidal, la federazione di atletica del Coni. Nel libro lui racconta la storia della Fidal e del Coni di Primo Nebiolo, che promuovevano il doping grazie alle autoemotrasfusioni del professor Conconi, perché le medaglie andavano conquistate a tutti i costi. Che ne pensa? “L’atleta è spesso d’accordo, e si trova ad accettare questi metodi perché vuole primeggiare, avendo anche il sospetto che gli altri si aiutino in qualche maniera. D’altra parte le Federazioni, anche quando scoprono casi di doping, preferiscono chiudere un occhio. Dei dirigenti si sono costruiti la propria carriera sui falsi successi degli atleti”. Rino stesso è un ex atleta, tennista, vincitore di numerosi trofei giovanili, nonché figlio d’arte. “Mio padre ha tenuto il record di salto in lungo per molti anni; partecipò alle Olimpiadi di Parigi del 1924 e a quelle di Amsterdam del 1928”. Non sarà mica che fu Evangelisti e il suo mitico 8 e 38 di Roma, risultato truccato come poi si scoprì, a togliere il record a Tommasi senior? Rino sorride mentre cerca la postura giusta sulla poltrona di pelle nera dai braccioli marroni: “No no, gli otto metri furono superati proprio da Evangelisti ma prima, e pare legittimamente”.
DOPING E RISULTATI
In Italia fino agli anni ’90 c’era una certa riottosità a parlare di Doping. Perché? “La stampa è stata resistente perché chi fa questo mestiere vorrebbe che lo sport fosse pulito. Se togli la certezza del risultato, lo sport finisce”. Lo sport finisce quindi, ma allora non è già finito con i vari Di Centa, Bugno, Moser (con Conconi che volò fino a Città del Messico per fargli l’emotrasfusione, con la scusa dell’anemia, nella corsa che gli valse il record su pista), Cipollini, Chiappucci, Pantani e via dicendo? Non abbiamo già tolto la certezza del risultato? “Mi ripeto: il problema è difficile perché la questione è complessa. Forse, mi sono quasi convinto, che tutto sommato sia meglio ignorare, anche se così si commetterebbero dei delitti verso la salute dell’atleta”. Veniamo al risultato sportivo. Come si gestisce quando da Ben Johnson ad Armstrong, arrivando fino alla Juventus, si tolgono dei titoli? Si assegnano al secondo arrivato? “Questa situazione è ingestibile. Ecco perché quindi istintivamente sarei per il rigore assoluto. Ma, così facendo, con regole rigide e rigore assoluto, potrebbe veramente finire l’attività sportiva, tale è la diffusione di questo fenomeno. Oggi si dopano anche i ragazzini, quelli che fanno la corsa del circondario. Nel tennis c’è il problema del tempo perché non sai quanto dura una partita, quando invece millecinquecento metri sono millecinquecento metri. Alla fine di questo discorso, io temo, e lo temo molto, che ci si debba arrendere. Mi sembra una battaglia che la legalità non può vincere”.
LA QUESTIONE CULTURALE
Donati però racconta anche di atleti che rifiutano di pratiche. Il problema è culturale quindi. “Certamente”, quindi, cosa si può fare di più? “Premesso che tutti i tentativi di carattere educativo, o pedagogico, si riducono al raccomandare agli atleti di non fare nulla, di correre a pane acqua, poi la realtà è altra. E quando si rompono gli argini, stabilire un limite prima del quale non è doping e poi lo è, francamente è impossibile”. C’è chi sostiene che nel tennis il doping non esiste. “No, non è vero. C’è chi ricorre all’aiutino, e poi i tennisti si parlano negli spogliatoi, si consigliano. C’è sempre poi il timore di perdere contro uno che si aiuta. Nessuno mai dice di perdere contro un altro più bravo”. Eppure i giocatori e le associazioni preposte, fra blitz all’alba e passaporto biologico, si ritengono a posto. “Si adottano questi sistemi per dare l’impressione di difendersi da questa piaga, ma in realtà non ci difendiamo. Gli strumenti sono alla portata di tutti. Da anni si assiste alla medicalizzazione dello sport, anche a livello amatoriale”. Jim Courier a fine carriera andava in giro a dire che erano tutti dopati. E se tu gli domandavi il perché, lui rispondeva “Perché corrono più di me. Nessuno corre più di me”. Ride. “Osservazione crudele ma tutto sommato giusta”. Che opinione si è fatto della vicenda Kostner, l’ex pattinatrice accusata di complicità e omessa denuncia nella vicenda legata all’ex fidanzato squalificato per doping, il marciatore Schwawrzer? “Il fatto che ci sia un rapporto di affetti o intimità non ti esime dalla denuncia. Squalifica giustissima, ogni tesserato ha il dovere di riferire in caso di illecito”. Doping o scommesse, cosa è peggio per l’immagine di questo sport? “Si sarebbe portati a dire istintivamente che sia peggiore la questione doping, ma l’altra questione è morale, ed è il cancro peggiore ma tutto sommato il più facile da debellare. Nelle scommesse ci sono i soldi che girano, e quindi quando li scopri puoi essere implacabile. Ma con la questione doping c’è di mezzo la salute dell’atleta e la credibilità dello sport. Per la questione scommesse sono per la rigidità massima, fermo restando che non credo ci siano giocatori che perdano apposta: perdere è contro natura nello sport”.
FEDERER, MURRAY, SEPPI, NADAL E LO SLAM DI DOPPIO
Nel suo studio Rino ha il televisore proprio di fronte la sua scrivania, alle nostre spalle, sulla destra. Scorrono le immagini del telegiornale, silenziato per permetterci di ascoltarci. Gli chiedo se ha seguito l’Australian Open. “Certamente”, risponde. “Ci sono state poche sorprese. I risultati sono stati molto regolari. Direi un torneo ordinario”. Il torneo brutto lo vince il più forte? “Assolutamente sì”. Non è d’accordo sull’idea che ci sia una sorta di rivoluzione in atto, nata dal successo di Wawrinka a Melbourne nel 2014 e portata avanti da Cilic e Nishikori a New York. Gli chiedo allora di Federer. “Federer sta confondendo le idee, sta resistendo oltre il previsto per via dell’età anagrafica ma il talento è quello”. E Murray, recente protagonista australiano? Qui l’espressione di Rino si fa arguta. “Murray è un soggetto interessante, da studiare. Come qualità naturali, parlo dal punto di vista delle risorse personali, è un atleta vero. È uno che è capace di fare il 10% di più nel giorno che c’è la gara importante. Murray è uno che riesce a esaltarsi in certi momenti dal punto di vista atletico. Durante l’anno, il problema è che perde 5 o 6 partite che non deve perdere, perché ovviamente non può stare sempre al meglio”. Ricorderemo l’Australian Open per via di Seppi che batte Federer? “Non è Seppi che batte Federer, è Federer che non può giocare sempre al meglio per via dell’età”. Però c’è stata la grande notizia del doppio. “Dimentichiamocelo. Il doppio non lo gioca più nessuno, è una gara di consolazione. Quelli bravi non vogliono sprecare energie perché non gli interessa dal punto di vista economico e atletico e molti lo giocano per modo di dire, giocando qualche partita”. E Nadal? “Nadal è a rischio. Secondo me si può anche rompere. Ha tirato fuori tutto quello che c’era da tirar fuori. Può essere consumato anche nella voglia magari, lui ha risolto il problema della vita”, ovvero quello economico.
CAMILA GIORGI E IL TENNIS ITALIANO
Protagonista del momento, anche per via della sua presenza nel primo turno di Fed Cup, è Camila Giorgi. Che gliene pare? “È una risorsa, è il nuovo che avanza”. Per il padre arriva di sicuro in alto. “Il padre è un pazzo, ma un pazzo utile direi. È un saltimbanco, che però ha tirato su questa ragazzina, che è decisamente una sua creatura. Camila Giorgi è ingombrante per gli altri, per i rapporti fra lei e il gruppo storico che apparentemente sono buoni. C’è sempre un po’ di rivalità: è inevitabile. Secondo me non ha i centimetri, i muscoli, per salire fino in alto”. La vulgata comune dice che deve cambiare coach per arrivare in alto. “No, non sono d’accordo. Il padre è fondamentale”. Come per le Williams? “Esatto. Senza di lei Camila non andava da nessuna parte. Genitori come Sergio o Richard Williams sono figure ingombranti ma fondamentali. Loro esercitano un potere che è oltre quello dell’allenatore, ovvero quello genitoriale, e questo può essere devastante ma anche fondamentale, utile”. Lo stuzzico sulla crisi presunta dei talenti in ambito maschile, ad altissimo livello. “I talenti si trovano. Noi abbiamo avuto la fortuna di trovare Panatta, talento straordinario e grande mano”, mentre mima con la mano destra il gesto di un diritto in aria. “Poi c’erano anche quelli come Barazzutti, che con la forza del lavoro hanno raggiunto i risultati. Ad ogni modo nella storia italiana del tennis io non ricordo di un giocatore del quale posso dire: ah, se avesse fatto meglio avrebbe potuto fare grandi cose. Non ne trovo molti che avrebbero potuto cambiare di molto la loro carriera”. Chiosa finale, inevitabile, su Fognini, il nostro miglior giocatore. La mascella si irrigidisce: “Fognini non mi piace”, risponde in maniera lapidaria, come a dire: chiudiamola qui.
PANATTA, LA TV E CLERICI
Ha nominato Panatta, di recente tornato alla telecronaca in TV. Molti ascoltatori l’hanno bollato come facilone, superficiale. “Ma lui è così. Tutto sommato non è del tutto sbagliato questo atteggiamento. Naturalmente, Adriano, sfrutta la sua popolarità. Non voglio portare ad esempio il mio caso e quello di Clerici, ma, come dire: noi abbiamo studiato di più”. Il problema, per lui, è dei dirigenti televisivi, molto impreparati nella scelta dei commentatori. “Quello che manca a molte TV ad esempio, sono i dirigenti. Finché ci sono stato io ho preso a lavorare con me Lombardi e Scanagatta, non decisamente delle scartine. Ora, però, la preoccupazione di questi dirigenti è quella di trovare il grande nome, lasciandosi incantare dai risultati”. Un’ultima cosa: chi era più forte fra lei e Gianni Clerici a tennis? “Sono convinto che fossi più forte io, ma non glielo posso dire. Non ci siamo incontrati mai in torneo; io ero più forte atleticamente, lui aveva più talento di me”.
Sorride divertito Rino, che ci chiede come ci siamo avvicinati al tennis. Si dimostra interessato, e dopo qualche altra chiacchiera in libertà, più scanzonata e fuori dai confini del giornalismo, ci parla della sua collezioni di libri, delle centinaia di annuari su calcio e tennis che sono ordinati sugli scaffali. Ecco, se dovete fare una ricerca su qualcosa che non è su internet, casa Tommasi, e Rino, sono la vostra soluzione.